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Cina, diarreee e Renzi

le tre golePrima di andare in Cina, nell’estate del 2006, con Paola andammo a parlare con un amico di amici che ci era già stato: visto che il viaggio non era stato preparato praticamente in alcun dettaglio, ci parve una buona idea. Soprattutto, credo, parve una buona idea a chi ci stava attorno: noi, inebriati dalla cosa, non è che ci si fosse posti grandi problemi e s’era deciso e organizzato il tutto un paio di settimane prima della partenza.

Lui, un dottore che si era specializzato in agopuntura e che era stato diverse volte nel Regno di Mezzo, ci parlò abbastanza a lungo di quello stato e di quel popolo che tanto lo affascinavano. Concluse poi con alcuni avvertimenti, e con un monito abbastanza chiaro: “Considerate che in Cina non è facile: vi ci vorrà una mattinata intera solo per comprare un biglietto del treno”.

Dentro di me, forte della mia presunzione e del mio provincialismo, pensavo: “Ti ci sarà voluta a te una mattinata intera: io son stato boy scout, ho vissuto in Albania, ho dormito per terra fuori della stazione di Atene e al porto di Igoumenitsa, mi son fatto 60km di sterrata nel cassone di un pickup reggendomi ad una corda nelle alpi dinariche, mi sono fatto Antalya-Villapiana Scalo in 4 giorni da solo usando tutti i mezzi di trasporto conosciuti: figurati se mi ci vorrà una mattinata, a me”.

Puntualmente, a Pechino, mi ci volle un’intera mattinata per fare un biglietto del treno, ed ero già in Cina da quasi una settimana.

La mia impreparazione mi costò alla fine solo qualche chilo, un paio di diarree e tanto tempo perso. Che poi il tempo perso non fu: viaggiammo con lentezza, insieme a qualche altra decina di migliaia di cinesi, con i loro ritmi e – quasi, devo ammetterlo – con le loro scomodità, vedendo pochi occidentali e tanta Cina: perso non fu, anzi.

La mia paura è che Renzi, che si sente molto più ganzo di quanto mi sentissi io, che è stato boy scout, che ha fatto le scarpe a D’Alema e compagnia, che ha fatto il mestiere più bello del mondo e il secondo mestiere più bello del mondo, che parla di dolore e di sogni ma che, fondamentalmente, sa-una-sega-lui, dall’avventura romana che sta percorrendo a passo di marcia magari ne uscirà con gli stessi chili addosso e senza una diarrea che sia una: quel che mi preoccupa è come ne usciremo noi.

utilissimi consigli per smettere di fumare. Anzi, per fare una pausa dal fumo

zeman

zeman

Per smettere di fumare sono necessari alcuni semplici accorgimenti.

  • Diffida sempre delle persone con forte volontà: sono pessimi esempi per smettere di fumare
  • La volontà non c’entra niente, la devi prendere per sfinimento
  • Non prenderti mai sul serio: non devi avere la più pallida idea di quale sia l’ultima sigaretta che ti sei fumato, si smette così, di botto. Se ne deduce, quindi, che è assolutamente sbagliato non avere con sè le sigarette: meglio averne sempre (vedi più sotto)
  • Non hai smesso di fumare: sei in pausa, puoi ricominciare quando vuoi, anche subito, anche adesso; ma adesso non ne hai voglia, quindi magari dopo (tanto le sigarette le hai in saccoccia, mica scappano)
  • Il picco di astinenza nicotinica è doloroso, è un morso, una coltellata a tradimento, uno sgarbo da un amico caro, però dura poco. All’inizio, i picchi si susseguono senza sosta, al punto da desiderare di (ri)diventare credente per poter invocare con fiducia “Signore, prendimi!” o “Che il Signore mi apra la terra sotto i piedi” (che poi è lo stesso). La bellezza sta nell’osservare come questi picchi piano piano, come piace a Veltroni, si allontanino, segno che anche voi, esseri immondi privi di nerbo e volontà, possiate forse farcela
  • Se pensi che hai smesso per sempre di fumare, non ce la farai mai: è come se ti fosse venuta a mancare una persona cara, che lascia una malinconia incurabile addosso
  • Ricordati che non è che sei fatto male se ti piace tanto fumare: dopo aver visto per anni i nostri eroi che, dopo tanto sudare, si scopavano la super-topa del film, e subito dopo si facevano un cicchino (per altro a letto la cenere fa schifo anche a me), oppure che, dopo aver ucciso tantissimi cattivi che se lo meritavano, si sedevano sull’orlo di un dirupo a farsi un bel cicchino, è logico che a te, che sei un perdente, ti venga voglia – per lo meno – almeno di farti una sigaretta, eccheccazzo
  • Alla prima molecola di nicotina che fiuti nell’aria, non farti tante domande: scappa. Scappa più in fretta che puoi. Avrai tempo per smettere di farlo
  • O fumi, o non fumi: se ne fumi una ogni tanto, e magari te la godi, ma puoi anche stare un sacco di tempo senza fumare che non te ne accorgi, ecco, vedi di andare affanculo
  • Lascia perdere le canne: tanto finiresti per metterci un caccolino di fumo, e poi giù tutto tabacco – tanto vale farsi un bel cicchino ammodo

la leggenda del progresso – il pozzo in Africa

leggenda del progresso - il pozzo in Africa

leggenda del progresso – il pozzo in Africa

Diversi anni fa mi fu raccontato un aneddoto. A dire il vero non ricordo se mi fu raccontato o l’ho letto, nè se nella storia i fatti si svolgessero come io li ricordo, nè tantomeno se la vicenda sia vera. Tuttavia la storia – che é in realtà  una parabola – mi é sempre piaciuta molto.
Anni e anni fa una ONG aveva iniziato un progetto di cooperazione in un villaggio dell’Africa Subsahariana. I giovani cooperanti, pieni di voglia di fare e carichi di buone intenzioni, furono subito molto impressionati da un aspetto della vita del villaggio: essendo gli abitanti privi di un pozzo, ogni giorno le donne, dalle bimbe fino alle adulte, si facevano due ore di cammino per andare a prendere l’acqua fino al pozzo, e due e mezzo al ritorno, piegate sotto il carico delle gerle piene d’acqua sul capo.
Questa schiavitù impressionò fortemente i giovani cooperanti.
Periodicamente, assieme a cooperanti di altre ONG, antichi colonialisti, squali ed affaristi, diplomatici e gente in fuga, i giovani cooperanti si trovavano nella principale città  della zona, per godere ogni tanto delle comodità  e dei piaceri che distinguono un gentiluomo occidentale da un selvaggio.
Una di queste volte conobbero i dirigenti locali di una grande e famosa compagnia petrolifera, che risparmiava ai selvaggi del posto la fatica di estrarre il prezioso oro nero che gonfiava il loro sottosuolo, non lontano dal villaggio. Il più ardito di loro sottopose diplomaticamente la situazione del villaggio ai dirigenti della compagnia petrolifera, facendo notare come – con la loro tecnologia e il loro personale – sarebbe loro occorso pochissimo tempo per aprire un bel pozzo nel mezzo del villaggio.
I dirigenti, per qualche strana alchimia, accettarono, e prestarono gratuitamente parte del personale ed una trivella al nobile scopo.
In poco tempo il pozzo fu aperto, e il giogo della gerla fu tolto dal capo delle donne.
Dopo un mese, un mattino, gli increduli cooperanti trovarono il pozzo completamente ostruito, tanto che da non poter più essere utilizzato.

Ci volle tempo e fatica per trovare i colpevoli.
O meglio, le colpevoli.
Furono infatti le stesse donne a distruggere il pozzo.

Dopo molto altro tempo, i giovani cooperanti capirono anche le ragioni che stavano dietro al folle gesto.
Le quattro ore e mezzo-cinque che ogni giorno le donne trascorrevano nella lunga e faticosa operazione dell’acqua, erano per loro preziose. Durante quel tempo, infatti, erano libere, non sottoposte alla rigida autorità  maschile, lontane dalla fatica della gestione della casa, dei figli, dei campi.
Durante quella lunga strada potevano discorrere, scherzare, spettegolare, cantare. Le donne insegnavano alle bimbe come si diventa donne. Era un momento loro.
Per questo avevano distrutto il pozzo, perché della presunta nuova libertà  non se ne potevano far niente.
Il nocciolo credo sia che, come non si può esportare la democrazia, così non si possa imporre il progresso: una cosa é giungere ad una conquista in cinque secoli, sudandosela ogni giorno per cinquecento anni, un conto é trovarsi la conquista regalata, in poche ore, senza sforzo, senza un percorso.
Dispiace per i poveri giovani cooperanti, animati dalle migliori intenzioni, ma fascisti nell’intimo: il fatto che una conquista sia giusta, non significa poi molto nel mondo reale, se non si aiuta la gente ad arrivarci. Anzi, se il progresso lo si impone, di fatto ci si comporta da fave.
Mi piacerebbe che ci pensassero coloro che reputano che noi occidentali siamo arrivati, e gli altri ancora corrono.

palcoscenico

alfredo puccianti

alfredo puccianti

Nell’autunno 1990, quando avevo 12 anni, assecondando un mio desiderio e la mia indole, mia madre mi iscrisse a “teatro”, come veniva comunemente chiamata l’animazione teatrale per ragazzi che Alfredo Puccianti organizzava ogni anno nel comune di Fiesole.
Ricordo che passai gran parte del pomeriggio a ballare la Zorba (quando sono trionfante, non riesco a fare a meno di ballare: cambiano solo i pezzi che accompagnano la danza, se così vogliamo chiamare il mio muoversi scomposto) e a improvvisare pezzi di teatro in soggiorno, entusiasta ed estatico.
Alfredo Puccianti era – perché purtroppo é morto stroncato dal suo amore viscerale per i cicchini – un personaggio eclettico e a suo modo geniale.
Aveva un carattere eclettico, nel senso che andava naturalmente dall’avere quello che in genere viene definito “un carattere di merda” ad essere persona di grande capacità  di comprensione e sensibilità .
Il cinema era la sua vita, la sua passione – direi per quello che l’ho conosciuto, e questo si riverberava nel suo farci far teatro: scene epiche e corali, recitazione assolutamente non teatrale – fin dove possibile, ovviamente.
Lavorava con i ragazzi, dalla prima media in su…man mano che diventavano grandi, passavano al gruppo dei grandi, con cui faceva altri spettacoli e che lo aiutavano nel fare quelli con i più piccoli (eravamo una caterva).
Ho sempre amato questo modo di far teatro: recitazione più “verista”, nel senso che mancava l’enfasi e l’accentuazione tipica del teatro (a favore di una recitazione di tipo cinematografico, direi da profano), e nello stesso tempo restava quella componente fondamentale, per me, che era il pubblico.

Già , il pubblico.

Ricordo perfettamente, nonostante abbia lasciato Alfredo nel 1995, la sensazione dello spettacolo, anzi, le sensazioni.
Ricordo appena prima dell’entrata in scena, la tensione tutta erotica di poco prima che cominciasse la mia parte: ogni nervo teso, il buio, il brusio quasi indistinguibile dietro le quinte, gli scambi di effusioni e auguri fra gli attori, la gente che si cambiava freneticamente, chi ripassava la parte, e poi via, dentro il ventro buio del palco.
E là , nel buio, davanti a te stava la bestia, che respirava con un solo respiro, in attesa: il pubblico.
E poi la luce, abbagliante, calda, piena di polvere in sospensione, e dietro l’animale che ti guardava.
Un istante di panico – sempre. Se non ricordi la prima parola non partirai mai, non ti stai ricordando la prima parola, la prima parola é il bandolo, afferralo, e uscirai dal labirinto, prendilo e non mollarlo più, seguirlo sarà  facile, a quel punto potrai anche fare strade diverse e uscirai lo stesso, ma prendilo, prendilo. E davanti, invisibile dietro le luci, l’animale immenso e respira, non lo vedi ma lo senti.
E poi via, afferri il capo del filo, e il filo scompare, e a quel punto sei padrone di te stesso e dell’animale davanti a te, decidi tu come uscire dal labirinto. Sì, sono un egocentrico presuntuoso. Mentre recitavo, appena dopo l’incipit, sentivo di averlo in pugno, quell’animale, di portarlo dove volevo io, di dominarlo, di farlo sognare e vibrare. Magari non é mai stato vero, magari solo a volte, magari sì: é una cosa che non mi interessa affatto.
Era una sensazione inebriante.
Poi si tornava, abbracci dietro le quinte, baci, pacche, carezze: gli attori hanno un’intimità , nel buio dietro le quinte, che rasenta quella degli amanti.
Alfredo mi ha conquistato da subito, dalla prima volta che mi chiese – come esercizio, come faceva fare a tutti – di recitare un verso. Cominciava pressappoco così: “ah che meraviglia questo vino caldo”. Io usai la pronuncia dell’integrazione, il fiorentino che avevo imparato per non sentirmi diverso e, soprattutto, per non farmi prendere in giro.
Alfredo mi interruppe subito: “No, no no. Giacomo, hai la fortuna di saper parlare italiano: quando reciti, parla come sai parlare, non come parlano gli altri”. In un attimo mi restituì la dignità  del mio parlare, che per anni avevo dovuto celare ed adattare per via dell’emarginazione – non marcatissima per carità  – che ne derivava.
Mi dette quasi sempre parti bellissime, almeno per me: fui “Doc Holliday” nel “Wild West Show”, personaggio mitico, con una sigaretta spenta in bocca (rubata alla Manu e portata in bocca in barba al divieto assoluto di farlo da parte della Manu stessa), malato, con una doppietta bellissima; ero anche il prete della prima scena, ricordo ancora, parola per parola, la mia parte, nonostante siano passati ventanni. Fui “Al Capone” in “Al e Charlie in: America”, che recitai in un palermitano decente dopo essere andato a scuola di dizione da mia nonna, che pazientemente e gaiamente mi recitò tutta la mia parte, sottolineando l’accento e la pronuncia corretta per farlo in un siciliano credibile. Fui una ragazza con l’accento francese – la parte più difficile che ho dovuto mai fare – in “Zuppa d’anatra”, spettacolo visionario al limite del comprensibile, in cui vestivo un vestito da donna strettissimo. però in quello spettacolo potevo gustarmi le forme di un’attrice che mi piaceva molto e che – per forza di cose – doveva cambiarsi tutte le volte davanti a me, per cui il supplizio del vestito lo accettavo volentieri. Fui l’agente segreto che rappresentava tutte le controrivoluzioni nello spettacolo “Que viva mexico”.
Questo scritto lo dedico ad Alfredo, con cui litigai e mi lasciai male, al quale ho voluto bene e cui devo ricordi splendidi, e che mi ha insegnato a recitare.

Buon Anno

falcone e borsellino

falcone e borsellino

Mi piacerebbe vivere in un paese dove i giudici fossero come Falcone e Borsellino.
Un paese dove i giornalisti fossero come Pecorelli.
Mi piacerebbe vivere in un paese dove i politici fossero come Moro.
Un paese dove i giovani fossero come Impastato.
Mi piacerebbe molto stare in un paese dove gli avvocati fossero come Ambrosoli.
Un paese dove gli anarchici fossero come Pinelli.
Mi piacerebbe stare in un paese in cui i preti fossero come Puglisi.
E i poliziotti come Montinaro, Di Cillo e Schifani.
[…]
Insomma, mi piace vivere in Italia. Basterebbero non ammazzassero le persone che mi garbano.

L’epos di B

monolito

monolito

Ho conosciuto B quando avevamo entrambi 11 anni. Ci squadravamo diffidenti, ognuno prudentemente appiccicato alla propria madre, sulla porta della sede dei boy scout, lui in particolare mi scrutava con uno sguardo intenso e osservatore che gli ho rivisto infinite volte.
Era un bel bambino con le gote paffute, biondo e chiaro di carnagione, aspetti che gli valse il soprannome di ‘Gesu’ per non poco tempo.

B sa praticare qualsiasi gioco. Pur non apparendo sportivo in senso stretto, é in grado di giocare a qualsiasi sport a livello semi-professionale. Se non conosce il gioco, in una mezz’ora é già  a livello dilettantistico. Dopo le prime tre partite conosce alcuni dei trucchi da campione, quelli che i ragazzi imparano da soli a casa in lunghi estenuanti mesi. Dopo cinque partite ha già  il suo colpo segreto.
Questo vale anche per i giochi da tavolo, i videogiochi, le carte e i giochi tradizionali. Quando andammo insieme in Inter-rail in Grecia e Turchia, si comprò il Rosario ortodosso, che gli uomini fanno roteare di dito in dito davanti ai caffé, e a fine vacanza ingaggiava gare all’ultima falange con i vecchi del luogo guadagnandosi il loro rispetto.
Qualche anno fa cominciò con impegno un gioco di strategia su internet: credo che sia divenuto leggendario, una sorta di Imperatore il cui nome viene appena sussurrato dai giocatori di mezzo mondo, una sorta di Morpheus. Va detto che gli ho visto stipulare un piccolo contratto col suo operatore telefonico per l’accesso a internet dal cellulare, così da poter amministrare i suoi domini in ogni luogo raggiunto dalla rete GSM.

Dal 1996 B é anche un tentacolare batterista: suona in modo dirompente, rutilante. Quando B suona ritorna bambino, nel bene e nel male: grida, canta, ride, fa i dispetti, cerca di attirare l’attenzione, si agita. Ma di fondo é solo estremamente felice. Quando suona é un fiume, una valanga, un tuono. Forse é perchè musicalmente é come se fossimo stati bambini insieme, e insieme fossimo cresciuti, però a me B sembra un musicista strepitoso. Sarà  che per ogni pezzo nuovo che cominciamo, ogni riff che faccio, B mi sorprende sempre con una batteria che non immaginavo, e che mi sembra che da sempre stesse aspettando che si facesse il pezzo per poter esserci suonata.

B é sempre stato rinomato come homo faber, e la nostra amicizia é sempre stata fondata sul fare qualcosa insieme. Poteva essere un pezzo, un sentiero, un pomeriggio silenzioso a pescare, un lavoro da cameriere, una lunga guidata, un viaggio, un rudimentale sistema di aerazione.
Con B facemmo un lungo ed estremo viaggio nel capodanno 2001.
Mi arrivò un messaggio la sera della Vigilia: ‘Ti va di fare il capodanno a Pamplona con me e A? Partiamo il 26’
Risposi in venti secondi: ‘Si!’
B chiuse: ‘Godo come una pecora appena nata’.
Ci facemmo 1600km su una Clio, 400 a testa, chè A non guidava ancora, pur mettendoci la macchina. Mi ero lasciato, e pareva definitivamente, con Paola, dopo un anno doloroso di lasciate e riprese. Avevo bisogno del mare, come capita a chi soffre parecchio, e l’Oceano Atlantico mi pareva potesse bastare. Ci arrivammo verso le 4 del mattino, lessi dal viaggio. Mi concessero un po’ di tempo, che passai su una piccola baia, coperta da una strana bruma ed illuminata da una luce verdastra di un molto poco più avanti. Mi piacque.
Il viaggio fu uno dei fondi che ho toccato in vita mia. Raggiunsi livelli piuttosto bassi, e B era sempre lì accanto. Non mi chiese mai nulla. Mai mi disse un suo parere, mai dato un un consiglio. Nemmeno mai mi disse “Se hai bisogno, ci sono”. Eppure, credo nessuno dei miei amici mi sia mai stato tanto vicino come B in quel viaggio meraviglioso, con B il non detto é sempre stato molto più del detto, e molto più sostanzioso: le poche volte che ci siamo detti che ci volevamo bene, é stato forse perchè avevamo paura che fosse passato troppo tempo per dare le cose per scontate, e credo che tutte quelle volte ci si sia sbagliati.
B é famoso anche per la sua proverbiale precisione. Una volta fu preso a lavorare in una di quelle aziende che fanno catering e organizzano eventi. In breve tempo apparve ai suoi datori di lavoro come una sorta di demiurgo, e gli fu affidato il magazzino. Andai a trovarlo, e mi trovai davanti una stanza: sulla sinistra una piccola montagna di cose, cavi, amplificatori, casse, oggetti indecifrabili, in stato di avanzato abbandono. Un grande tavolo da lavoro delimitava il mondo del caos primordiale dalla Creazione: a sinistra una piccola montagna di cose ancora non benedette dalle mani di B, sulla destra ciò che B andava riparando, pulendo, oliando, rimontando. Il lato destro: un tempio. Scaffali puliti, ognuno con la sua etichetta, con oggetti in ordine, puliti, sistemati.
Casa di B per me é stata una seconda casa, la sua famiglia una seconda famiglia. Non perchè la mia mi volesse poco bene, quanto perchè l’ospitalità , in casa B, é una religione osservata con eleganza. Ci sono stati periodi in cui, avendo una sola macchina in famiglia, mi fermavo spesso a mangiare da loro, e poi a dormire, a suonare, a giocare, a registrare. A qualsiasi ora sia arrivato, o c’era pronto un ottimo caffé (che non manca mai, amorevolmente conservato in un termos accanto ai fornelli), se non era ora pasti, o veniva messo un piatto in più, e venivo fatto sedere e rifocillato. Se arrivavo tardi, una cenetta veniva improvvisata con gli avanzi. Mai una volta, e ce ne saranno state -é statisticamente impossibile che non sia arrivati in un momento in cui rompessi le palle, che mi sia sentito di troppo. Mai una volta che il cibo non sia stato ottimo e in giuste dosi. Il tutto come se fossi una persona di famiglia, senza che mai mi sia sentito anche solo vagamente ospite, che l’ospitalità  fosse ostentata. Una lezione di vita, essere ospiti in casa B.

E così é B: un ospite perpetuo, che alle persone che ha accanto non fa mancare nulla di quanto sia in suo potere, senza chiedere, senza ostentare. A volte senza che uno se ne accorga.

Gli albanesi fuori dall’albania

resort

resort

A Creta, vicino Chanià , in un resort standardizzato come ce ne sono -credo- un po’ dappertutto.
Personale solerte ed efficiente, gentile in modo affettato, disponibili fin quasi alla cintola e più sotto.
La connessione in camera non funziona, dopo alcune prove da nerd, decreto sia la spina a muro, temendo di dover rinunciare per sempre.
Il giorno dopo, accompagnato dall’inserviente del resort, arriva il tecnico. L’inserviente é un tipo con la faccia simpatica e baffoni neri. La presa resuscita.
P. comincia a lavorare, io prendo B. (G.) col marsupio e mi avvio a fare lo splendido papà , cosa che coi greci -e le greche- non é per nulla difficile, visto come si sciolgono di fronte ai bebé. Uscendo ringrazio la signorina della reception, che mi ripaga slogandosi la mandibola in un sorriso.
Fuori trovo l’inserviente, che ringrazio, e col quale scambio due parole. Mi chiede del piccolo e si toglie la curiosità  di sapere se siamo davvero italiani come aveva supposto.
Lui mi dice di essere albanese e istintivamente mi rivolgo a lui nel poco di scipetaro che mi ricordo.
Si illumina di colpo, e -se non ci fosse B. frapposto- senz’altro ci abbracceremmo.
Mi chiede incredulo come mai parli l’albanese, e via così.
Mi trascina, estatico fra grandi risate, al bar, dove mi presenta ad un altro albanese.
Restiamo a parlare -io in un albanese stentato ma che non credevo di conoscere- per una mezzoretta, durante la quale mi offre l’immancabile ed irrinunciabile caffé.
Come tutti gli albanesi che ho incontrato fuori Albania sin qui, anche lui é semplicemente deliziato dal fatto che abbia imparato qualche parola della sua lingua, che mi piaccia l’Albania e che mi sia sentito a casa. E, come sempre quando mi succedono queste cose, anche io sono estatico, quasi commosso. Perché, come per loro é un po’ ritrovare casa, anche per me é così. Non é casa mia, ma io in Albania ci sono stato bene, mi sono sentito davvero accolto come una persona di casa, e mi é piaciuta, e mi sembra giusto onorare questa loro ospitalità , che noi italiani tante volte abbiamo tradito.
Sono forti, gli albanesi.

Se questo é un bocciofilo

gigi il bocciofilo

gigi il bocciofilo

Quest’uomo é un bocciofilo. Viene da tutti chiamato Gigi, e il suo vero nome é custodito gelosamente,come una reliquia, dai pochi che ne conoscono il segreto. Magro,il volto scavato, su cui campeggia l’ombra di un mozzicone di sigaretta che ha lasciato l’impronta, come l’acqua sulle rocce dopo millenni di fluire ininterrotto. Una discreta -per gli standard della Costa- croce d’oro emerge fra le rade ciocche bianche che ornano lo sterno prominente, erto fra le bretelle di una canotta blu, che a metterla in un barile d’acqua ci puoi fare la salamoia per quintali di acciughe. Gli occhi,di un azzurro brillante, luccicano fra due fessure i tagliate nel duro cuoio del viso, e guardano -quasi rapaci- il boccino. Al suo turno, in un silenzio sacrale, curva appena la lunga schiena ossuta, piega il ginocchio e lentamente muove il braccio, un gesto che pare emergere dalla roccia, da millenni di riti ormai consumati. Infine, a compiere uno sforzo che appare drammaticamente insufficiente -eppur inane!- il polso scatta, come se la cartilagine delle giunture si piegasse fino a spezzarsi all’improvviso, e la boccia intraprende il suo viaggio mistico. I presenti trattengono il fiato; alcuni mormorano una preghiera fra i denti. Una donna piange sommessa. La boccia rotola lentissima sulla terra battuta, inesorabile ma destinata a lenta agonia. Troppo lenta, troppo debole. Possibile che il Maestro, l’Unico, colui cui i bocciofili, da Lerici a Orbetello, rivolgono solo l’appellativo Lui, con la maiuscola, abbia fallito? Ma la boccia sale ostinatamente sull’argine stondato, si arrampica fin quasi a fermarsi. E riparte. Con energia rinnovata discende il bordo della pista, compiendo una traiettoria ellittica giottesca, e carezzando le bocce gialle va a sfiorare il boccino, fermandosi. L’eucarestia che si rinnova. Un cieco dalla nascita, presente al compiersi del miracolo, vede.

Complotto contro la terra!

missione su venere! gasparri alfano e fede

missione su venere! gasparri alfano e fede

“È un complotto dei Venusiani contro di me. Ho le prove”.

Così il premier Silvio Berlusconi agli increduli giornalisti presenti alla conferenza stampa di questa mattina a Palazzo Grazioli.

“Da quel che resta del centro aerospaziale del Fucino, i nostri migliori scienziati non hanno dubbi: i Venusiani hanno tramato a lungo, di comune accordo con le Sinistre, per montare questo complotto contro di me.
Ma io vado avanti e ribatterò colpo su colpo.
Anche la NASA ha confermato, dopo che ho chiesto al negro, anzi, al muso nero, insomma al mio amico cioccolato se poteva controllare.”

In serata partiranno gli ispettori del ministero della Giustizia per accertamenti nella procura di Venere.
Vista l’eccezionalità  della situazione, la missione -tutta italian- sarà  capitanata dallo stesso Ministro della Giustizia, Angelino Alfano (“Sono fiducioso” ha detto il guardasigilli). Il presidente della Camera, On. Gianfranco Fini, avrebbe chiesto e ottenuto che sia presente anche l’on. Maurizio Gasparri per svolgere non meglio precisate mansioni.
Pare invece che a nulla siano valsi i divieti dei medici ad Emilio Fede, che dopo un intenso allenamento presso il centro spaziale di Catriago, ha deciso di partecipare armato di spada laser deciso a far piazza pulita (“Sono convinto che troveremo qualche parente del Professore, lassù” ha detto scherzando).

Ode al Tetris!

tetris!

tetris!

25 anni fa un ricercatore sovietico dell’accademia delle Scienze moscovita inventa Тетрис, un videogame.

Ho passato grandi pomeriggi a disfare la tastiera per battere il record di mia cugina A. (14mila e rotti), che una volta riuscii a sforare.
Era come danzare, non guardavo quasi lo schermo -figuriamoci i tasti, il 7, l’8 e il 9- era solo muoversi a tempo. Feci oltre 20 mila. Mai più fatto niente del genere.

Ecco, a mio avviso Tetris é forse l’unico -e comunque il primo- vero videogame.
Nel senso: tutti i videogame, in pratica, riproducono la realtà  nel mondo virtuale, e in esso ti fanno giocare.

Tetris no.
Non é un aspetto della realtà  umana (guerra, spionaggio, strategia), non é un gioco da tavolo, non é un simulatore.
Non esiste una realtà  in cui cadono pezzi di roba dal cielo, e una volta che formano una linea, scompaiono nel nulla.

Chissà  dove ci avrebbe potuto portare una scienza informatica così.

Purtroppo, come é stato per la matematica sovietica, é andato praticamente tutto perso.
E vabbé.