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Steve “Cemento” Zollo al porto di Bar

il porto di Bar

il porto di Bar

Un misto di pesce, nafta e sudore. L’odore dei porti. C’era cresciuto in mezzo fin da quando aveva potuto camminare sui docks, per scroccare qualche centesimo agli scaricatori e sentire i marinai raccontare le loro fantastiche balle. Odore di uomini truci e spacconi, pescherecci, molluschi avvinghiati ai piloni del ponte. Anche quando era andato a fottere la prima volta, la puttana più giovane che poteva permettersi. E c’era ancora quell’odore mentre zavorrava i piedi a quei cristi, sordo alle suppliche e alle promesse di tutte le ricchezze del mondo.

Scese dalla nave con la nausea. Non era mal di mare, era schifo per gli infiniti lavori di merda che aveva fatto nella vita. Per scoprire che quello che gli riusciva meglio era saldare i conti aperti da altri, in cambio di una buona paga, un completo pulito e una cravatta intonata. Era bastato il giro delle raffinerie siciliane a rivoltargli il rancore nella pancia: adesso gli toccava un porticciolo pidocchioso, frequentato dalla peggiore feccia che il buco del culo del mondo potesse cagare sulla terra. Un altro lavoro per Steve Cemento.

Solo una cosa lo manteneva lucido: la determinazione. L’ultimo carico ed era fatta. Toni il lionese lo aspettava a Cannes, per piazzare la sua droga.

Incamminandosi verso le tre sagome in fondo alla banchina, ripensà alle parole di Luciano: “Mi raccomando, Steve, tutto come le altre volte. E se provano a tirare sul prezzo, mandali a fare in culo insieme alle loro madri. And take care, okay?”

Le tre facce erano una collezione completa di quello che un’arma da taglio può produrre su un volto umano. Soltanto i baffi spioventi nascondevano in parte lo scempio. Indossavano giacconi puzzolenti e berretti da marinai di lana putrida. Emanavano quell’odore.

Si fermò davanti a loro e resse gli sguardi senza batter ciglio.

– Bulatovic.

Quello in mezzo fece cenno di seguirlo. Zollo si incamminò dietro di loro.

Lo scortarono dentro una bettola da cui provenivano musica e risate. Nel locale si stipava una trentina di uomini, all’angolo in fondo un vecchio strimpellava la fisarmonica. Alcuni avventori erano militari, barbe lunghe e divise slacciate per il caldo. Il fumo di sigarette e narghilé creava una nebbia fitta, oltre la quale Zollo intravide quello che doveva essere il suo uomo. Nei viaggi precedenti aveva avuto a che fare con intermediari, ma questa volta la partita di eroina era molto grossa: il capo in persona si era scomodato per riceverlo.

Mikhail Mehmet Bulatovic era seduto a uno dei tavolacci affumicati. Due energumeni stavano in piedi alle sue spalle. Al confronto, i tre tizi di prima erano carini.

Bulatovic portava un completo fuori moda di almeno vent’anni ed era mal rasato, come se la pelle coriacea avesse opposto strenua resistenza alla lama. Il genere di soggetto che Zollo detestava dal profondo. Un bifolco megalomane che si credeva lo Zar di tutte le Russie, solo perchè aveva in tasca qualche ufficiale e smerciava droga alla testa di una banda di tagliagole. Nessuna regola.

Erano personaggi del genere a muovere la ruota del narcotraffico mondiale. Decine, forse centinaia di piccoli cesari di provincia a caccia di soldi e gloria. Trattenne la voglia di sputare per terra.

Bulatovic fece cenno di sedersi di fronte a lui. Occhi da assassino, grigi e inespressivi. Zollo ne aveva visti parecchi. Strinse una mano ruvida e prese posto. Gli offrirono acquavite che sorseggiò appena.

Uno dei tizi del porto disse: – Mikhail no parla taliano, dice che é lingua di fascisti. Io sì, io fatto guerra contra taliani. Tu parli e io traduce.

– Voglio sapere dove prelevare la merce e consegnare il pagamento.

La traduzione fu rapida.

Bulatovic pronunciò poche parole.

– Dice dopodomani in Dubrovnik. Al porto. Tu controlli la merce, poi paghi.

Zollo annuì.

– Dice anche che tu molto pericolo qui. Mikhail ha molti nemici, gente che vuole mettere le mani su suoi affari. Capisce? Lui deve tenere tutti al loro posto. Spende denaro per pagare soldati, e per difendere la tua vita. Se lui no controlla tutto, suoi nemici ti ammazzano per rovinare suoi affari.

La solita merdosa storia. Il re pastore si era fatto avanti solo per tirare la corda. Zollo si alzò.

– Digli che il prezzo resta lo stesso delle altre volte. Alla mia pelle ci penso da solo. Okay?

Il tizio tradusse e Bulatovic rimase a fissarlo per alcuni secondi, come stesse valutando qualcosa.

Zollo si sentì una giubba blu che difende lo scalpo dagli indiani.

Girò sui tacchi, anche se l’idea di dare le spalle a quella gente lo entusiasmava poco. Prima di uscire sputò per terra.

Mentre camminava verso la nave si chiese quanto ci avrebbero messo a seguirlo. La porta della bettola sbattè dietro di lui.

Eccoli.

Si fermò e accese una sigaretta con tutta calma.

Erano i due guardaspalle.

Li osservò avvicinarsi, fumando.

Impugnavano delle Luger del ’45. Ferraglia buona per la limatura.

Le prove di forza non gli piacevano. Erano soltanto gesti retorici per dimostrare chi aveva il cazzo più duro. Ma quella gente era così, parlava una lingua antica.

Estrasse la Smith & Wesson silenziata e centrò entrambi alla rotula sinistra, prima che avessero il tempo di prendere la mira.

Il resto lo fece a calci e col serramanico che portava in tasca.

Quando rientrò nella bettola aveva la giacca sgualcita e una macchia di sangue sulla manica. Bulatovic e l’interprete rimasero pietrificati al tavolo, dello stesso colore, quasi facessero parte di un’unica scultura in legno.

Zollo si avvicinò, la stessa espressione di quando era uscito.

Il trafficante udì un pluf dentro il bicchiere che aveva davanti.

Mentre l’acquavite si tingeva di rosso intravide due orecchie galleggiare.

Zollo mormorò: – Adesso sai chi é il peggiore tra noi due.

Si rivolse all’interprete: – Ci vediamo a Dubrovnik.

Questa volta uscì guardandosi le spalle.
Wu Ming – 54

QUESTA é letteratura.
E io mi sono fumato, in memoria del buon Steve, una sigaretta sul quel molo!

le frontiere

frontiera slovena

frontiera slovena

Nella foto é possibile notare la frontiera italo-slovena, per altro ormai desueta, visto il recente ingresso degli sloveni in UE. Tuttavia, per decenni e decenni, nel panorama che si può vedere da sopra Trieste era come se ci fosse un taglio, netto e profondo per alcuni, lacerante per altri, inquietante e carico di misteriose minacce per altri ancora, piccolo intoppo per pochi. Per quanto mi sia sforzato, confini non ne riesco a vedere. Eppure, sull’atlante, per me questo territorio é sempre apparso sul bordo, come un bicchiere che sta per cadere giù da un tavolo, come se gli abitanti fossero funamboli sospesi sul vuoto del mondo oltrecortina. E la stessa sensazione mi ha preso mentre Paola mi guidava da Muggia attraverso uno dei lembi più remoti del nostro stato. Ma la frontiera per me é solo un patimento. Immagino questi poveri popoli di confine, magari separati all’improvviso dai parenti o dagli amici (talvolta addirittura divenuti in un attimo i Nemici), che non parlerebbero probabilmente né italiano né sloveno, ma un loro dialetto meticcio; e invece, da una parte del filo rosso dovevano essere e parlare italiano, dall’altro lo sloveno. Certo, col passare del tempo gli stati nazionali hanno imparato a riconoscere l’importanza delle cosiddette minoranze linguistiche, ma non basta. è lo stato nazionale di per sé che, secondo me, é una cacata inutile.