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bitter happy end


Primavera 1991.

Un bimbo di circa 4 anni sta guardando la televisione, i cartoni animati. La madre è indaffarata in cucina. Il padre è fuori, al lavoro, fa il poliziotto.

Improvvisamente il cartone scompare. Al suo posto, dopo un breve, fastidioso momento di trasmissione interrotta, compare un uomo a mezzo busto. È vestito con un’uniforme militare, il bimbo non sa riconoscere i gradi, ma sa cosa sia una divisa – e quell’uomo ne indossa una. Non ha un’espressione amichevole. Bastano due parole, ringhiate con voce cattiva, che la madre si precipita in soggiorno, uno straccio ancora in mano.

Il bimbo non riesce a capire esattamente cosa stia dicendo l’uomo, dev’essere qualcosa come “vi uccideremo tutti” o qualcosa del genere, non ha molto senso, ma sicuramente non è niente di buono. Strane sensazioni.

Molto più senso ha il singhiozzo sordo di sua madre, il suo improvviso pallore, e il suo pianto silenzioso e disperato.

Seguono scene convulse. Telefonate, papà è scomparso, non si sa dove sia, non si può sapere – cosa vuol dire papà è scomparso? – non si sa quando si saprà – cosa vuol dire? – il telefono staccato, uscire di fretta da casa – dove andiamo mamma? – gente in giro per la strada, poi ricordi confusi, case sconosciute, sballottato di qua e di là. In un attimo il bimbo impara che non sempre si possono fare domande, e che alcune non si possono nemmeno pensare.

 

Quel bimbo oggi è vivo, ed è un bravo, serio e promettente ricercatore sloveno, che svolge il suo dottorato in un istituto di ricerca internazionale. Parla molto bene l’inglese, il tedesco, il serbo-croato. Capisce l’italiano e altre lingue di matrice slava.

Suo padre è vivo, fa ancora il poliziotto, e nulla gli successe nei giorni immediatamente successivi alla dichiarazione d’indipendenza della Slovenia, anche se per quasi una settimana la sua famiglia niente seppe di lui. Lo stesso vale per sua madre, e per suo fratello più piccolo.

Non so cosa sia stato del generale dell’armata jugoslava che interruppe le trasmissioni, in fascia protetta – come diremmo oggi – per annunciare agli sloveni che in quel momento erano alla TV che sarebbero tutti stati uccisi, che non ci sarebbe stata pietà per loro, che avrebbero pagato caro il loro azzardo.

Alla Slovenia è andata di lusso, e ben lo sa il mio amico, e ben lo sapeva quando mi ha raccontato questo aneddoto, con uno strano sorriso sulla faccia, con il suo modo di affrontare le cose sempre un po’ scherzoso, distaccato e allegro. Ci sono stati ben altri orrori, pochi anni dopo, accanto a casa nostra: mentre noi ci fumavamo le prime sigarette, ci davamo i primi baci, pigliavamo le prime sbronze, i nostri coetanei venivano sbranati da mine e mortai, e alle nostre coetanee andava anche peggio, al di là dell’Adriatico.

Eppure è ugualmente terribile questo piccolo aneddoto, la ferocia di questa immagine, la cattiveria del gesto. Ed avere davanti il bimbo di allora, che veniva posto di fronte a tanto mentre io pregustavo la fine della seconda media, e che oggi me lo racconta con semplicità, cercando più che altro di capire e di farmi capire lo stato della madre, più che il suo, mi ha toccato.

Goodbye and good luck

Era da un pezzo che paventavo questo momento, e purtroppo è arrivato: Oscar Luigi Scalfaro se n’è andato.

Tante se ne sono dette, tante se ne diranno su di lui. Per me è stato un presidente della repubblica formidabile. Ed è stata anche una lezione di politica, anzi, una serie di lezioni.

Era un cattolico di destra/centro-destra, dunque politicamente avevamo ben poco a che spartire. Oggigiorno è impensabile: nei casi “migliori”, chi è dall’altro lato la pensa in modo diametralmente opposto, e dunque non c’è niente in comune; nei casi “peggiori”, una volta che hanno il culo sulla poltrona son tutti uguali e pensano solo a magnare. Però su un punto – in una democrazia normale – non si dovrebbe discutere: la Costituzione. Se si gioca insieme, le regole le si scelgono tutti insieme, in un circolo virtuoso in cui, confrontandosi e lavorando, si trovano i valori che ci accomunano, le cose in cui si crede, e in quella cornice si gioca. Questo vuol dire che chi appartiene ad un partito diverso è un avversario, persona degna, da rispettare, e non un nemico. Io con Scalfaro ho condiviso la passione per la Costituzione, che me lo ha fatto incontrare nel 2005, a Roma: una mattina memorabile.

Era il presidente dei comitati per la difesa della Costituzione durante il periodo in cui la maggioranza di centro-destra cercava pesantemente di modificare la Costituzione a favore dei poveri e dei derelitti. Per fortuna, gli andò buca, non grazie ai partiti di centro-sinistra, va detto: mi feci tutta la campagna, e si videro solo alla fine. Ma proprio alla fine. Per altro il primo ministro ai diessini non dispiaceva affatto. Comunque: Scalfaro quel giorno era di ottimo umore, affabile, scherzoso. Andando avanti con la riunione, approfittando della platea ristretta, raccontò i retroscena della crisi del primo governo Berlusconi, e di come gestì la cosa.

Berlusconi andò da lui e fece tre richieste. Non ricordo con esattezza quali fossero, una di sicura erano le elezioni anticipate. Anticipatissime, visto che erano passati solo sei mesi, e di andarci con il suo governo in carica. Scalfaro raccontò di come ebbe chiarissimo, in quei brevi secondi, che se avesse detto anche solo un sì, Berlusconi sarebbe riuscito a strapparglieli tutti e tre. L’Italia nel frattempo era in crisi nera, c’era grande sfiducia nelle istituzioni, c’era stata tangentopoli; come presidente della repubblica doveva cercare di scongiurare il ritorno alle urne in tutti i modi. Berlusconi incalzò: “Forse non mi hai sentito – le prime cariche dello stato per prassi si danno del Tu, come ci spiegò lo stesso Scalfaro vedendo i nostri occhi strabuzzati – ti ho fatto tre richieste…”. A questo punto Scalfaro lo interruppe e rispose:

“Alle tue tre richieste, rispondo tre no.”

E poi, confessò Scalfaro senza la minima vanteria, quasi vergognandosene, fece un bluff magistrale, interpretando con spregiudicatezza il suo ruolo (anche alla luce della sua conoscenza dello Stato, aggiungo io). Puntò sul fatto che Berlusconi non conoscesse tutte le prerogative e i poteri del capo dello stato, e gli fece credere di averne molti più di quanti ne avesse, e insieme gli fece una proposta che – a suo dire – mai nessun presidente avrebbe dovuto fare, ovvero che avrebbe proposto di formare un nuovo governo alla persona che Berlusconi gli avesse indicato (mai sentito parlare di Lamberto Dini?). Berlusconi, che invero ignorava gran parte delle norme della democrazia parlamentare italiana, alla fine accettò, come la Storia ci insegna, ma credo che, appena sceso dal colle, i suoi collaboratori gli abbiano fatto notare come fosse stato turlupinato – peraltro per la seconda volta (la prima era stato per Previti) – da Scalfaro. Da qui, malignamente, credo derivi gran parte dell’astio del centrodestra nei confronti del Nostro, checché ne dicano. E li capisco anche.

Ricordo a tal proposito una tribuna politica, in cui c’era Scalfaro e Sacconi. Quest’ultimo si lasciò un po’ troppo andare a fare il teatrino, e Scalfaro gli disse, con molta dolcezza, qualcosa come: “Maurizio, siamo stati compagni di partito [la DC N.B.] per tanti anni, non c’è bisogno di far finta di non conoscersi e di darsi del Lei”. Sacconi reagì da essere indegno qual è, rinfacciandogli la condanna a morte che Scalfaro firmò a guerra appena finita. Scalfaro accusò il colpo, tornò in un attimo quel vecchio che era, e stette zitto, visibilmente ferito. In quel momento, conoscendo la storia per averla sentita raccontare da Scalfaro stesso (a me personalmente, per altro), quasi mi commossi per la profonda pena che provai, e dalla rabbia e il disgusto per il colpo basso di Sacconi.

Scalfaro fece benedire, quando ne era presidente, la Camera dei Deputati, fatto che ritengo gravissimo. Eppure la stessa persona, anni e anni dopo, quando la CEI si espresse su un referendum (o qualcosa del genere), disse che i Vescovi sono persone eccellenti, ma che essendo fuori dalla Costituzione della Repubblica, farebbero bene ad occuparsi di religione, e non della politica italiana. Io credo che, diversamente da molti altri, si sia evoluto, nel tempo, come politico e come uomo. La differenza fra Scalfaro e Capezzone, ad esempio, è che quest’ultimo ha cambiato idea per avere più potere. E come lo stesso Scalfaro disse: “Ricredersi e cambiare pensiero è un atto di intelligenza e di dirittura morale. Se un ministro democristiano diventa comunista rifiutando posti di potere io lo rispetto. Ma chi cambia idee e acquista potere certamente è un opportunista”.

Nel 2007, in un periodo di grande sfiducia nella politica, un giorno mi imbattei in una legge che voleva modificare la Costituzione, cercando di aumentare il quorum necessario per modificare la Carta stessa (e dunque mettendola al sicuro da colpi di maggioranza, come fece il centrosinistra per il titolo V). Vado a vedere, e il primo firmatario era Scalfaro. Presi carta e penna, e gli scrissi, dicendo subito che ci separavano abissi politici, ma ringraziandolo per quella proposta di legge e per aver “salvato il paese da quella manica di farabutti che dissennatamente il popolo italiano” aveva eletto nel ’94, esprimendogli la mia gratitudine per la sua presenza in un desolante panorama politico, e il mio sconforto e disamore alla politica.

Dopo qualche settimana, un giorno, a pranzo con i miei amici-colleghi, mi telefonò mio padre.

“Giacomo, oggi sono venuti due questurini a cercarti a casa tua, non c’eri, hanno sentito la vicina di sopra che ha fatto chiamare me: gli ho dato il tuo cellulare, ti scoccia?”.

“Pà, ormai ha poca importanza se mi scoccia o meno, ma che volevano?”

“Mah, non saprei, dice che non era niente di brutto”

“Avranno ritrovato il cellulare di Paola, certo strano che ti vengano a cercare a casa…”

Un po’ interdetto racconto la cosa ai colleghi. Dopo pochi minuti una telefonata, un numero a me ignoto compatibile però con i numeri in zona via Zara.

Rispondo.

“Salve, è la Questura di Firenze, parlo con Giacomo Trombi?”

“Si”. Nel frattempo il mio collega M. chiedeva, a voce non troppo bassa, “Ma che cazzo hai combinato?”

“Lei tre settimane fa ha scritto una lettera al presidente Scalfaro” – a metà strada fra una domanda ed una affermazione

“….si…” (porca puttana – penso nel frattempo – me l’hanno intercettata)

“Il presidente Scalfaro avrebbe piacere di parlarle, e chiede se può telefonarle sul suo numero di telefono privato”

“….scusi?…”

“Il presidente Scalfaro ci ha chiesto di rintracciarla per chiederle se può chiamarla al suo cellulare” ripete divertita la signorina.

Balbetto che ovviamente mi farà un grande piacere, e da lì passa l’appetito e tutto il resto.

Più tardi, in ufficio, squilla nuovamente il cellulare: un numero di Roma.

Solita trafila:

“Pronto, è la segreteria del Presidente Scalfaro, è il signor Giacomo Trombi?”

“Si”

“Lei tre settimane fa ha scritto una lettera al presidente Scalfaro?”

“Si”

“Aspetti un attimo, le passo il Presidente”

 

 

 

“Sono Scàlfaro…”.

 

 

La lunga telefonata, che si svolse per parte mia nel torrido cesso – un posto di sicura privacy – in cima alla piccionaia di Agraria, in un torrido Agosto, fu semplicemente meravigliosa.

Per prima cosa si scusò per avermi fatto chiamare sul mio numero privato. Poi mi ringraziò più e più volte per la lettera, a suo dire troppo lusinghiera nei suoi confronti. Poi cominciò a raccontare. I primi anni della politica, l’episodio terribile della condanna a morte che dovette firmare – la legge era semplicemente, purtroppo quella, anche se poi fu amnistiato –  una grande e profonda crisi che ebbe nel primo dopoguerra, quando gli sembrò che tutto fosse ancora marcio, che nulla fosse cambiato, e durante il quale avesse pensato di mollare tutto. Poi ancora ringraziamenti, mi chiese che facevo. Mi salutò mandandomi un abbraccio. Qualche tempo dopo mi arrivò un suo libro sulla Costituzione, con la dedica scritta di suo pugno.

Non capii subito per quale motivo mi avesse telefonato. C’è chi dice per ringraziarmi, c’è chi dice perchè era un vecchio che non aveva un cazzo da fare e questurini a disposizione, c’è chi dice perchè era un signore, c’è chi dice perchè era un democristiano. Dopo non poco tempo ho capito, un po’ come François Pienaar in “Invictus”, dopo il primo incontro con Mandela, quando la sorella gli chiede “Allora, che voleva?” e lui, dopo qualche minuto, illuminato, capisce e risponde “Credo che voglia che vinciamo il campionato del mondo”. Allo stesso modo ho capito io, raccontando la cosa a gente semisconosciuta sulle gradinate di santambrogio una sera d’estate di qualche tempo dopo, per quale motivo Scalfaro mi abbia chiamato: per dirmi di non farmi prendere dallo sconforto, di non abbandonare le mie responsabilità, di non abbandonare la lotta. Perchè anche se sembra che tutto sia uno schifo, non possiamo permetterci il lusso di mollare tutto.

Potrete dire quello che volete su Scalfaro, e magari avete anche ragione. E magari aveva ragione anche chi, malignamente, ha detto che mi ha telefonato perchè si annoiava.

Resta il fatto che un ex presidente della repubblica si è preso la briga di telefonarmi per dirmi di non perdere la fiducia e di non darmi per vinto. Quando mi impartirete una lezione di vita di questo livello, vi ascolterò volentieri.

 

Grazie, presidente, e buona fortuna

Il giorno della memoria

Pochissimi anni fa i sovietici aprirono i cancelli di Auschwitz, spalancando l’abisso di fronte all’umanità.

L’umanità ha scelto la via più comoda, e da allora i Tedeschi sono i Cattivi, gli altri no, o comunque meno.

Ogni anno cerco di ricordare a me stesso che potevo essere io, uno di quegli aguzzini. Non importa quale ruolo ricoprissi: dall’ufficiale che eseguiva gli ordini, al prigioniero politico tedesco che faceva il kapo, alla casalinga che non sentiva l’odore agrodolce dei camini poco distanti, allo studente che prendeva a sassate la vetrina del giudeo. Sarei benissimo potuto essere uno degli aguzzini. Non raccontiamoci fole: il problema dei tedeschi, anzi, i due problemi dei tedeschi sono (i) che fanno le cose per bene e (ii) che hanno fiducia nell’autorità. Ed è per questo che alla fine gli Italiani, che pure di porcherie atroci ne hanno fatte, e che fascisti sono stati, ne sono usciti tutto sommato bene, a tarallucci e vino, come al solito.

L’orrore dei campi di concentramento nazisti non è qualcosa da contemplare dall’alto della nostra coscienza pulita, dal caldo dei nostri salotti, ripetendoci “io non lo avrei mai fatto”: è uno schifo nel quale dobbiamo immergerci, del quale non dobbiamo avere paura, che solo dobbiamo combattere.

A versare la lacrimuccia siamo tutti buoni, e non costa nulla.

Prima di tutti, vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht

 

Capitani coraggiosi

21 anni fa, di questo periodo, moriva, dopo che mia madre l’aveva aiutato a farsi il segno della croce e dunque, in virtù di questo, serenamente, mio nonno Vincenzo. Oggi avrebbe 106 anni.
Doveva in realtà chiamarsi Guido, ma il parente o chi per lui che andò all’anagrafe si dimenticò il nome, e pensò che Vincenzo andasse benissimo.
Era l’ultimo figlio di una famiglia palermitana di capitani di marina.
Da piccolo, quando stava per cominciare la prima guerra mondiale, andava al porto a vedere i bastimenti che arrivavano, e poi andava a riferire a suo nonno, quasi cieco da tempo, che si faceva ripetere la stazza delle navi alla fonda, ripetendo incredulo cifre che, per un uomo abituato alle vele e non al vapore, non potevano essere comprese.
Mio nonno, mi concedo una licenza, recitava con serietà la sua parte, nel grande palcoscenico della vita. Era meridionale, e per questo si sentiva in dovere di essere ferocemente geloso e attaccare – letteralmente – al muro chiunque indugiasse a suo avviso un po’ troppo sulle forme di mia nonna. Era siciliano, e dunque piuttosto maschilista. Era un marinaio, e aveva amiche in ogni porto. Era capitano di marina, e dunque monarchico. Era anche uomo all’antica, che credeva nella dignità dell’uomo.
Passò il tempo, durante il secondo conflitto mondiale, ad incrociare nel mar mediterraneo. Mi raccontava, con la voce austera gelida nel suo disprezzo, di come gli inglesi passassero con la mitragliatrice i naufraghi in balia delle onde, a dispetto di tutte le leggi del mare, e di come una volta, interrogando in merito a questo un capitano anglosassone prigioniero, per l’appunto raccolto in mare, si sentì rispondere “È la guerra”. Mi raccontava di Cipro, di Creta, di Gibilterra; di come una volta avesse sentito, nel silenzio assoluto, i denti di un sottoposto che battevano forte dal terrore, mentre in una notte buia aspettavano il bombardamento, in mezzo al mare.

Che io sappia non ha mai fatto naufragio, l’unica volta in cui lo avrebbe fatto fu chiamato appena in tempo, mentre saliva la passerella di una nave che sarebbe stata colata a picco subito fuori dal porto di Palermo (nessun superstite), perché sua madre era morta. Una sorta di salvataggio in extremis, verrebbe da pensare.

Non so cosa farei io se fossi il capitano di una nave grande come un comune e tale nave stesse affondando. Non so se avrei il coraggio di restare a bordo a coordinare i soccorsi col rischio di crepare. Non so, soprattutto, se avrei il coraggio di far tutto questo dopo aver fatto un’immane cazzata, per altro concordata con la compagnia.

Non so nemmeno cosa avrebbe fatto mio nonno. Però ho alcune convinzioni. Non credo che mio nonno sarebbe passato così vicino ad un’isola. Credo però che probabilmente nemmeno la compagnia gli avrebbe chiesto di farlo per rendere felici i menefreghisti a bordo, che consumano paesaggi come fossero popcorn, e li vogliono vedere vicini. Non credo che mio nonno avrebbe lasciato la nave, la sua nave.

Oggi il senso dell’onore, della dignità di un uomo, il senso del dovere, sono tutte cose che, in Italia, sono considerate da sfigati, da perdenti, da piglianculo.

Mio nonno, con tutti i difetti che poteva avere, era un uomo che credeva nella dignità dell’uomo e nel suo onore. Per questo era capace di vegliare, già vecchio, suo nipote in vece di sua figlia stremata dalla stanchezza, e la mattina esser di nuovo pronto a farlo, e a farlo ancora, senza mostrare il minimo segno di stanchezza, come fosse la cosa più normale del mondo. Perchè, per lui, in effetti era la cosa più normale del mondo che un uomo si comportasse così.

C’è tanta voglia di eroi, in Italia, basti guardare il buon De Falco e come sia stato incensato.

Cosa lascia perplessi è  che l’italiano di oggi desidera ardentemente che l’eroe ci sia, ma che non sia lui stesso: d’altra parte perché proprio lui?

Gente che c’è rimasta sotto


"Il miglior giornale per i migliori lettori"

Emancipazione

Alla fermata del tram campeggia questa pubblicità. La traduzione (di google translate, ma c’ero arrivato anche io – figuratevi) suona pressappoco così: “Il miglior giornale per i migliori lettori”. Naturalmente, dietro al giornale ci immaginiamo un Francesco Giuseppe nel fiore degli anni che legge soddisfatto.

 

Un po’ di giorni fa, ha tirato le cuoia Otto d’Asburgo-Lorena, erede virtuale al trono. Non vi dico i servizi, i giornali, la gente: tutti tristi, tutti implicitamente a rimembrare i giorni lieti e i fasti dell’Impero.

Questi disgraziati, effettivamente, da che erano il cuore dell’Europa, una corte imponente (per quanto retta spesso da clamorosi inetti), che difendeva l’Europa contro le orde turche (che si pulivano sorridenti il culo con l’acqua del Danubio alle porte di Vienna, magari a monte della città), che ha prodotto Mozart (e le relative palle), la Sacher, Klimt e quant’altro, ecco, da tutto questo si trovano (dopo aver perso una guerra mondiale, essersi fatti volontariamente annettere dalla Germania nazista, perso una seconda guerra) ad essere un rutto sulla cortina di ferro, a penzoloni fra stati fantoccio del patto di Varsavia (badate che Vienna è davvero ad est), con a due passi un’unione sovietica con la sindrome da invasione facile.
Per uscirne, optano per la porta di dietro: noi scompariamo, voi ci lasciate in pace. Dell’Austria non se ne sente più parlare, a parte il delizioso siparietto inaugurato – e chiuso – da Haider, per altro recentemente.

E io ci credo che son sempre li a ricordare i bei tempi che furono, a disprezzare i tedeschi (che comunque hanno abbandonato al loro destino, dopo esserne stati co-artefici), ad andare in giro vestiti da matti con le parrucche tipo Mozart: ora è un paese per pensionati.

Per altro mi dicono che sia davvero meta di emigrazione senile per via del fatto che qua ancora si può fumare un po’ dappertutto e la gente non ti rompe le balle a riguardo (men che mai i figli lasciati in patria!).

Bei tempi

Da http://www.oocities.org/historyofaustria/austriamaps1.html