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Pulpen Ficktion

Ah, Vienna.
I viali alberati, vecchi Caffè pieni di specchi e vecchie signore, i palazzi imperiali, i giardini, il Danubio che scorre, la neve nei vicoli del centro.
E come dimenticare le Fiaker, le gloriose carrozze che portano entusiasti turisti per gli acciottolati del centro?
In realtà questi residuati dell’Impero ben poco hanno di romantico, ma sembrano dimenticarlo le migliaia che ci si gettano quotidianamente.
I cavalli, ronzini male in arnese con le orecchie perennemente inguainate in delle specie di preservativi bianchi di stoffa (ovviamente luridi), passano la maggior parte del tempo libero a fare le uniche due cose che possono fare: cercare di mordersi vicendevolmente e cacare.
I vetturini sono tutti dei brutti ceffi, la pelle bruciata dal sole, rovinata dal fumo e dall’alcol, con una bombetta dalla forma piacevole, ormai lisa e bisunta, calcata sui capelli. Le braccia sono quasi sempre ricoperte di tatuaggi, ma si noti che non sono né attualissimi tribali, né dragoni o carpe, e nemmeno ideogrammi: bensì quei fregi fatti a mano, nomi di donna, volti, cristi e madonne, che solo marinai e galeotti sfoggiano. Mancando il mare a Vienna…

Pare infatti che nei tardi anni ottanta siano cominciati ad arrivare i Russi, malavitosi agguerriti e preparati, che hanno in breve tempo estromesso le bande locali (tutta brava gente, artigiani senza esperienza di mondo) dalle loro attività più tradizionali: le donne, il gioco d’azzardo, un po’ di droga.
I disgraziati, per potersi permettere le merci che un tempo distribuivano, hanno usato tutta la loro frustrazione per potersi imporre sui vecchi vetturini, il cui lavoro offriva l’enorme vantaggio del pagamento, in nero, a cadenza giornaliera, da sputtanarsi la sera stessa.
Grande preparazione non serve, infatti, per biascicare due minchiate su Sisi a distratte famiglie di americani. E comunque, alla fine, il servizio loro più richiesto è di chiudere il guscio della Fiaker per poter consumare una trasgressivissima sveltina per le vie di Vienna. E se c’è una cosa in cui questi gangster in disarmo sono eccelsi, è tener la bocca chiusa e far finta di nulla.

Il mito della sovraoccupazione

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“L’Austria di oggi è molto più comunista dell’Unione Sovietica!”
Così mi ha detto una dottoranda russa che ho incontrato in treno.
In effetti lo stato sociale qua ti prende per mano e ti carezza, mentre ti aiuta. Se fai un bimbo, o una bimba, insomma se ti riproduci con successo, lo stato ti ringrazia, apprezza il fatto che tu ti sia accollato questa responsabilità, e lo fa con grande pragmatismo: non mi pare ti diano targhe o distintitivi, però ti danno soldi e aiuti. Aiuti vuol dire che ti garantiscono un asilo, che te lo pagano, che garantiscono alla madre la possibilità di stare a casa con i figli, ma anche poi di ritornare al proprio posto di lavoro. Insomma, come in Italia, che se figli fai la figura o di quello che si è fatto incastrare (se sei uomo) o di quella che vuol far la furba (se sei donna). Nei casi migliori.
In austria, soprattutto, c’è il mito della sovraoccupazione.

Per garantire un lavoro a tutti, ma senza farsene accorgere, un po’ ci si inventa cose da fare, per ammazzare il tempo, oppure si applica il ragionamento “nel più ci sta il meno”. Negli uffici pubblici dunque, popolati di impiegati felici e sorridenti, si fanno code brevi, generalmente. Il rapporto impiegati/utenti è infatti 3:1.
Oppure, come dicevo, si inventano cose da fare, e qui soprattutto è l’edilizia che va. Per esempio, si rade al suolo un intero quartiere e si ricostruisce, o si distrugge la stazione sud (Südbanhof) e la si ricostruisce, cambiandole anche il nome così ci scappa una bella commissione per sceglierlo magari (si chiamerà Hauptbanhof). O, nel piccolo di Laxenburg, si rifanno le aiuole della strada. Prima erano perfette, per lo standard cui sono abituato, dopo pare abbiano anche pettinato l’erba.

Il regno dell’oscurità e i suoi goblin

La torre - il regno dell'oscurità

La torre - luminose eh le finestre in alto! Io sto sotto.

Sono ospitato in un centro di ricerca internazionale, fra i cui membri ovviamente l’Italia non figura.

Durante l’estate il centro si popola di studenti un po’ da tutto il mondo, e questo riempie abbastanza le stanze, per cui per me posto non ne è stato trovato. Per lo meno non insieme al gruppo cui faccio riferimento.

Il centro ha il quartier generale (così dicono loro) in un bel castello austriaco, che si affaccia su una piazza immacolata a nord e un parco enorme, altrettanto immacolato, a sud. Sulla piazza c’è anche un timido municipio ed una chiesa, ben più disinvolta. Ma ovviamente è il castello a farla da padrone; d’altra parte fra impero, democrazia e chiesa, il gioco delle parti quassù mi pare sia questo.
Il centro è suddiviso in aree, ognuna con la sua storia, i suoi aneddoti e le sue corti dei miracoli. In Italia, sarebbero sorte faide e lotte mortali fra le varie aree, qui se ci sono attriti si ignorano – al massimo. I più ardimentosi ed emancipati sfottono.
A me mi hanno proposto la torre.
Ora, devo confessare che ho sempre desiderato stare in una torre.
Purtroppo l’ambiente, seppure fosse adibito a sala dei giochi per i rampolli della famiglia imperiale, è un tantino malsano: feritoie al posto delle finestre, umidità, pareti ricoperte da graziosi (orridi) affreschi georgici di dubbio gusto, che altro non fanno se non togliere luce. Da qui il nome “Regno dell’oscurità”, che sale alla bocca spontaneo, lasciando l’ascensore…
Inoltre, il mio ufficio in realtà è stanza di passaggio, sia per gli sportivi che optano per la scala a chiocciola, disdegnando l’ascensore anni 70, e che aprendo la porta in cima alle scale trovano me, sia per quei – pochissimi – che espletano i proprio bisogni corporali in orario d’ufficio: il cesso infatti si affaccia pure (gran comodità, va detto) sul mio ufficio.
La torre è abitata da una folta comunità sino-giapponese (i primi a volte usano il bagno, i secondi mai), un europeo – direi olandese, e frequentatori occasionali, fra cui anche turisti.
L’olandese si dimentica – tutti i giorni che dio mette in terra o quasi – che l’andito è ora abitato, e tutti i giorni – o quasi – prende la scala, apre la porta, si spaventa abbastanza rumorosamente, si maledice, stringe i pugni per la stizza e poi attacca a scusarsi più e più volte, mentre – goffamente – abbandona la scena. Questo simpaticissimo teatrino si ripete – ormai in modo imbarazzante – almeno due/tre volte a settimana, tanto che comincio a pensare che sia un modo garbato e pittoresco di farmi capire che sarebbe gradito se mio levassi dai coglioni, ma fino a settembre, ahiloro, non se ne parla!

In ogni caso, devo dire, sono consapevole dell’immane botta di culo che ho avuto ad essere ospitato là, sia ben chiaro!

E poi, quanti di voi lavorano in una torre di un castello da sogno?

Il centro di ricerca

A sinistra, chiesa e comune, a destra: das Schloß