Archivio della categoria: No man’s land – in viaggio

Loro sono armati: di manico

Bossi se n’è andato, ha lasciato la guida del partito più vecchio attualmente in vita nella scena politica italiana, che teneva saldamente, o nelle proprie o nelle mani della sua famiglia, da due decenni.

Esce di scena un personaggio rozzo, nei modi e nel pensiero, un ottimo esemplare della nuova classe politica italiana, seppure con particolarità tutte sue. Un gran furbone, con un fiuto che ha permesso ad un partito che si regge su tutto e su nulla di sostenere gli sconquassi degli anni, e uscirne vivo, dopo che tante volte fu dato per spacciato. Un uomo che ha saputo cucire un elettorato quantomai disomogeneo, e se l’è tenuto stretto per anni, passando con disinvoltura da una promessa all’altra, tutte – dico tutte – disattese, senza mai esser riconosciuto come cialtrone farabutto qual è.

Indipendenza, secessione, federalismo, federalismo fiscale, puoi ancora indipendenze, poi annessione, secessione, etc etc. Sono stati al governo per praticamente un decennio, e non l’hanno fatta. Eppure l’elettorato è convintissimo che sia per colpa degli ‘altri’ , il leit motiv che accompagna ogni problema in Italia d’altra parte.

Come dimenticare poi l’uscita geniale del dialetto? A sbraitare che bisognava insegnare il dialetto a scuola, che in padania bisogna parlare il dialetto. Poi s’accorsero che un militante triestino ed un militante piemontese non riuscivano a capirsi, se parlavano in dialetto, con grave danno per l’immagine della granitica padania, unita contro il turco Meridionale, e la cosa cadde lì. Idea per altro assolutamente interessante: io appoggio pienamente l’idea di difendere le identità culturali locali, di promuovere lo studio e il parlare dei dialetti: un dialetto che sparisce è una ferita, un pezzo di cultura che perdiamo, e non va bene. Il problema è che dietro la Lega, se mai ci fossero stati dubbi, alla fine idee non ce ne sono. Ci sono soldi, tanti, e come dovunque in Italia, dove ci sono soldi, arrivano i faccendieri, gli sciacalli, i farabutti, la criminalità organizzata. E come sempre, nessuno gli sbatte la porta in faccia, nemmeno alla Lega, da sempre contro i cattivi.

Bello poi l’epilogo, in stile Italiano, con Maroni, il fedelissimo amico, con cui Bossi ha condiviso mille battaglie, che mi dà l’impressione – ma sicuramente sono io maligno – che abbia saputo sfruttare il ruolo che ha ricoperto di ministro dell’interno, e guarda caso scoppia il bubbone, e Bossi se ne deve andare. E penso alla tristezza di questa gente. Due colleghi, che lavorano insieme per anni, che fanno – appunto – mille battaglie insieme, lottano, condividono, e poi la cosa finisce così, con la classica coltellata alla schiena.

Ma è proprio necessario che in politica debba valere la legge della giungla? Che per forza ci debbano essere lotte all’ultimo sangue? Che non ci possano essere amicizie o ideali, che alla fine finisca sempre tutto a schifìo?

Vediamo ora che succederà, se ne va Berlusconi, e poco dopo le segue Bossi – d’altra parte doveva succedere, no?

Nel frattempo uno splendido Bersani trova l’accordo sulla legge elettorale con Alfano e Casini, una legge che mantiene nelle mani dei farabutti di cui ci lamentiamo tutti – in primis gli elettori del pd – la possibilità di decidere i candidati (così avremo ancora un bello stuolo di pompinare, faccendieri, farabutti, mafiosi e quant’altro ad affollarsi ai banchi di Montecitorio, altri Scilipoti estratti dal cilindro del genio Di Pietro: sono ansioso di risentire qualcuno che ritiri fuori la storia che Prodi lo fece cadere Bertinotti, così parliamo un po’ dei confini fra dabbenaggine e buonsenso. La capacità di saper leggere il presente ed il futuro della classe dirigente del pd resta comunque, per me, motivo di tranquillità: il suo stolido perdurare mi fa sentire sereno, sicuro, un po’ com’era con Dalla. Ogni tanto accendevi la tv o la radio e c’era lui, e tu ti ripetevi: “Le cose importanti stanno ancora tutte al loro posto”

Bossi lo amo ricordare così, come lo definisce un mio caro amico quando non ne può più e sbotta: “handicappato di merda”

Uno splendido Bossi

Il mare che non c’è più

Quand’ero piccolo il mio libro preferito era l’atlante. Fra i mille luoghi che mi attraevano, c’era un posto che mi affascinava molto, un lago immenso, che ricordava vagamente una mela con picciolo e fogliolina. Le sue acque, anziché in azzurro come tutti i mari ed i laghi normali, erano di un rosa sporco: il mare di Aral, grande pressappoco come il lago Vittoria, ma molto più affascinante ai miei occhi.

Non so per quale motivo quel lago mi abbia sempre attirato: saranno state le acque salate, rese negli atlanti in rosa o con dei puntini, che lo rendevano speciale e simile ad un mare; forse quel suo esser sperduto in zone aride, nel mezzo dell’Asia.

Recentemente ho visto una foto satellitare del lago d’Aral, e sono rimasto di stucco. Anzitutto non è più un lago, ma sono due, divisi da una dorsale bella dritta. E seconda di poi, è grande nemmeno un terzo di come lo sapevo grande io, di come me l’avevano sempre dipinto l’atlante – anzi gli atlanti – e la varie cartine che avevo visto.

Wikipedia mi ha svelato la catastrofe: tutti presi dalla frenesia e dal delirio di onnipotenza (che li aveva spinti ad esempio a mettere a coltura in soli tre anni una superficie grande come l’Italia, per la prima volta nella storia, nelle steppe centroasiatiche) i sovietici avevano deciso di usare l’acqua degli immissari del lago per irrigare i terreni circostanti, strappati alla steppa e avidi d’acqua. La colossale opera – fu chiaro fin da subito – avrebbe prosciugato seriamente il lago. I sovietici pensarono che in questo modo avrebbero corretto un grossolano errore della natura, che aveva messo un inutile lago salato, le cui acque erano inadatte a scopi agricoli, in mezzo alle palle del gigante: meglio così, al posto del lago sarebbe rimasta terra fertile, e le terre circostanti sarebbero divenute rigogliose grazie alle acque sottratte al lago.

Sfortunatamente non andò esattamente così. Il lago si è quasi prosciugato, è vero. Ma al posto è rimasto un deserto di sale, nella cui crosta sono intrappolate migliaia di tonnellate di pesticidi e fertilizzanti restituiti dai campi sovietici, pompati come atleti della DDR per sfamare la fame del PCUS. E la desolante e desolata landa è velenosa anche per l’area circostante, perché i venti strappano le sostanze nocive al sale, e le portano come polvere in giro.

Ora del porto della città di Aral, che ancora dà il nome a quel che resta del mare di un tempo, restano i moli, strane impalcature nel niente, e qualche vecchio peschereccio appoggiato su di un fianco.

Ebbene, ogni volta che penso al lago d’Aral, mi vengono in mente le parole desolate di Lucio Dalla in “Com’è profondo il mare”:

 

[…]
Certo
Chi comanda
Non è disposto a fare distinzioni poetiche
Il pensiero come l’oceano
Non lo puoi bloccare
Non lo puoi recintare

Così stanno bruciando il mare
Così stanno uccidendo il mare
Così stanno umiliando il mare
Così stanno piegando il mare

 

Barilla

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Tornando a Firenze per uno striminzito fine settimana, mi trovo a ragionare – superficialmente come mio solito – sulla relatività del concetto di “casa”.
Lascio Vienna, nella quale mi sto trovando tutto sommato bene, ma che ancora è ben lungi – e temo lo resterà – dall’esser considerata “casa”, per tornare a Firenze, che invece “casa” è.

Eppure, ben poche volte mi ha seccato così tanto partire.

Ho sempre amato partire, il frizzante sapore della partenza, l’ignoto che sta in ogni viaggio. Il treno di notte poi è per me un luogo magico. Il puzzo del treno, della ferrovia, metallico, il to’to’ttoto’ dei binari, l’essere un po’ sbatacchiati e cullati assieme.
L’intimità coatta, gente che non hai mai visto che scoreggia, si sveglia disfatta. Gli incontri improbabili, la solidarietà di chi non dorme e popola i corridoi. Le pecore nere, quelli che russano, puzzano, piangono. Quelli che hanno un sacco di bagagli.
Le città che passano, le luci, i passaggi a livello.
La bestia nera d’ogni viaggio in treno, la scolaresca, peggio se americana – che bevono.
I controllori, che vegliano tutta la notte, e alla fine fanno da genitori a tutti i passeggeri.
Il treno di notte è una meraviglia.
Ma lo stesso mi girano i coglioni, ho un po’ di magone, di malinconia.

Sarà che lascio Peppotto e la Molino, e dove loro sono, ormai, casa mia sta.