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L’isola che non c’è

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Unije, una piccola isola sul Quarnaro, vicino l’Istria. Una roccia bianca, coperta di macchia, polvere e rocce. Un solo, piccolo omonimo insediamento: una manciata di casette sul pendio che digrada su una baia ampia dal fondo cristallino.
Forma irregolare, con tre lunghe insenature sul lato orientale – riparo perfetto per l’occhio inesperto – e un pianoro che scende verso il mare dal lato occidentale, che guarda – senza vederla – Venezia, gli antichi padroni che qua avran visto solo capre e rozzi pescatori, pezzenti buoni solo a pagar qualche tassa.
Fra le correnti e i venti, la terra grama e sassosa, l’acqua – che non c’è – e la polvere, l’isola non è mai riuscita a decollare.
Ci devono aver provato i pionieri del socialismo di Tito, che hanno costruito un piccolo stabilimento ittico nell’insenatura più profonda, e un paio di fattorie sul pianoro. Di tutti restano tristi vestigia scheletriche.
Sul pianoro ci hanno fatto una pista: un bell’aeroporto che consta in una baracca e una pista in erba secca, con due-tre aeroplanini turistici.
Sull’isola non ci sono macchine, e le strade sono mulattiere o cordoli di cemento che si insinuano fra le casette, bordati da cespugli secchi, piantine grasse e fiori colorati, tenuti su dalle donne del luogo rubando l’acqua che la scalcinata nave rossa porta quasi ogni giorno, arrivando gonfia e semisommersa, ripartendo con le ruggine delle fiancate orgogliosamente esibita ben sopra il pelo dell’acqua.
Sull’isola c’è: una chiesetta, un paio di tabernacoli (per ricordarsi che comunque qua siam cattolici), la posta, che fa anche da banca, una panetteria, un alimentari sovietico (vuoi per l’estetica, vuoi per la quantità di merci presenti sugli scaffali), un paio di ristoranti e un nuovissimo agriturismo dove la prenotazione è caldamente consigliata (ma dove ogni piatto è cucinato con amore, come viene espressamente detto). Tutto questo è segnalato alla fine dell’unico molo del porto (a parte il discorso delle prenotazioni).
L’isola conta un’ottantina di abitanti, che d’estate toccano i quattrocento. Di più, semplicemente, non ce ne stanno.
A parte chi ci vive (e spesso non sono nativi per altro) l’isola accoglie ospiti e fruitori. Oltre gli abitanti. Molti di questi provengono da altri luoghi della Croazia, ma tutti ripetono lo stesso mantra: Unije è un piccolo paradiso, per questo siamo venuti a vivere qui. Ed è vero.
Gli ospiti sono coloro che: se ne fregano di lasciare la macchina una settimana da qualche parte sulla costa dalmata o istriana; non hanno difficoltà a stare in un posto in cui ci si sposta solo a piedi (a meno che tu non riesca a strappare un passaggio da uno dei due trattorini che hanno soppiantato i muli); non si scocciano all’idea di stare in un posto in cui la cosa più vicina all’ospedale che ci sia è un piccolo abuso dietro la posta, con una barella e poco altro; non sono assaliti dalla sindrome dell’ostaggio se passa una sola nave al giorno; salutano con favore la totale assenza di occasioni di consumo: non ci sono treccine, tatuaggi, canotti, zucchero filato, pistole ad acqua. Mancano anche musica tuz-tuz a nastro, animazioni per bambini, acquagymn e altre amenità analoghe.
I fruitori posseggono barche a vela e yacht di piccolo cabotaggio; stazionano per un paio di giorni davanti alle coste, scendono senza bagnarsi le Lacoste bianche, vertono sul birrino gelato una volta appreso – con orrore – che non sanno fare il Mojito, mangiano ad uno dei ristoranti, fanno un paio di sospiri malinconici per via della poesia del luogo e se ne tornano in barca. Lasceranno il luogo increduli il giorno dopo. Spesso stazionano in condomini galleggianti (oggi ne abbiamo contate 75, fra barche e yacht) nell’insenatura più profonda. Quando qua tira vento da sud-ovest pare che ogni legno che galleggi in questa baia venga irrimediabilmente frantumato sulle scogliere a grattugia. Passando vicino la baia ho indugiato per qualche attimo sulla seguente gloriosa scena: sera, tramonto indimenticabile, birre e festini fra un ponte e l’altro dei navigli alla fonda. Babbi abbronzati con pochi fili di grasso, palestra, qualche scarno monile d’oro sul petto, scarpe e costume di marca. Mogli un po’ appesantite, qualche ritocco ma con garbo, cagnolino allegato. Rampolli cicciottelli, rigorosamente figli unici, infradito e ninnoli tecnologici: mai preso un granchio con un ferro arrugginito, per capirsi. Compiacimento diffuso per la scelta intelligente sul posto dove buttar l’ancora.
Fortunale verso le tre del mattino.
Barche fracassate sugli scogli, nessuna vittima, contusi e feriti coperti malamente con pareo stracciati in lenta processione che percorrono la mulattiera verso il paese.
I vecchi li accolgono dalla panchina scuotendo la testa.
Il municipio di Mali Lusinj demolisce i relitti a spese loro.
Poi ho ricominciato a camminare.