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Pulpen Ficktion

Ah, Vienna.
I viali alberati, vecchi Caffè pieni di specchi e vecchie signore, i palazzi imperiali, i giardini, il Danubio che scorre, la neve nei vicoli del centro.
E come dimenticare le Fiaker, le gloriose carrozze che portano entusiasti turisti per gli acciottolati del centro?
In realtà questi residuati dell’Impero ben poco hanno di romantico, ma sembrano dimenticarlo le migliaia che ci si gettano quotidianamente.
I cavalli, ronzini male in arnese con le orecchie perennemente inguainate in delle specie di preservativi bianchi di stoffa (ovviamente luridi), passano la maggior parte del tempo libero a fare le uniche due cose che possono fare: cercare di mordersi vicendevolmente e cacare.
I vetturini sono tutti dei brutti ceffi, la pelle bruciata dal sole, rovinata dal fumo e dall’alcol, con una bombetta dalla forma piacevole, ormai lisa e bisunta, calcata sui capelli. Le braccia sono quasi sempre ricoperte di tatuaggi, ma si noti che non sono né attualissimi tribali, né dragoni o carpe, e nemmeno ideogrammi: bensì quei fregi fatti a mano, nomi di donna, volti, cristi e madonne, che solo marinai e galeotti sfoggiano. Mancando il mare a Vienna…

Pare infatti che nei tardi anni ottanta siano cominciati ad arrivare i Russi, malavitosi agguerriti e preparati, che hanno in breve tempo estromesso le bande locali (tutta brava gente, artigiani senza esperienza di mondo) dalle loro attività più tradizionali: le donne, il gioco d’azzardo, un po’ di droga.
I disgraziati, per potersi permettere le merci che un tempo distribuivano, hanno usato tutta la loro frustrazione per potersi imporre sui vecchi vetturini, il cui lavoro offriva l’enorme vantaggio del pagamento, in nero, a cadenza giornaliera, da sputtanarsi la sera stessa.
Grande preparazione non serve, infatti, per biascicare due minchiate su Sisi a distratte famiglie di americani. E comunque, alla fine, il servizio loro più richiesto è di chiudere il guscio della Fiaker per poter consumare una trasgressivissima sveltina per le vie di Vienna. E se c’è una cosa in cui questi gangster in disarmo sono eccelsi, è tener la bocca chiusa e far finta di nulla.

bitter happy end


Primavera 1991.

Un bimbo di circa 4 anni sta guardando la televisione, i cartoni animati. La madre è indaffarata in cucina. Il padre è fuori, al lavoro, fa il poliziotto.

Improvvisamente il cartone scompare. Al suo posto, dopo un breve, fastidioso momento di trasmissione interrotta, compare un uomo a mezzo busto. È vestito con un’uniforme militare, il bimbo non sa riconoscere i gradi, ma sa cosa sia una divisa – e quell’uomo ne indossa una. Non ha un’espressione amichevole. Bastano due parole, ringhiate con voce cattiva, che la madre si precipita in soggiorno, uno straccio ancora in mano.

Il bimbo non riesce a capire esattamente cosa stia dicendo l’uomo, dev’essere qualcosa come “vi uccideremo tutti” o qualcosa del genere, non ha molto senso, ma sicuramente non è niente di buono. Strane sensazioni.

Molto più senso ha il singhiozzo sordo di sua madre, il suo improvviso pallore, e il suo pianto silenzioso e disperato.

Seguono scene convulse. Telefonate, papà è scomparso, non si sa dove sia, non si può sapere – cosa vuol dire papà è scomparso? – non si sa quando si saprà – cosa vuol dire? – il telefono staccato, uscire di fretta da casa – dove andiamo mamma? – gente in giro per la strada, poi ricordi confusi, case sconosciute, sballottato di qua e di là. In un attimo il bimbo impara che non sempre si possono fare domande, e che alcune non si possono nemmeno pensare.

 

Quel bimbo oggi è vivo, ed è un bravo, serio e promettente ricercatore sloveno, che svolge il suo dottorato in un istituto di ricerca internazionale. Parla molto bene l’inglese, il tedesco, il serbo-croato. Capisce l’italiano e altre lingue di matrice slava.

Suo padre è vivo, fa ancora il poliziotto, e nulla gli successe nei giorni immediatamente successivi alla dichiarazione d’indipendenza della Slovenia, anche se per quasi una settimana la sua famiglia niente seppe di lui. Lo stesso vale per sua madre, e per suo fratello più piccolo.

Non so cosa sia stato del generale dell’armata jugoslava che interruppe le trasmissioni, in fascia protetta – come diremmo oggi – per annunciare agli sloveni che in quel momento erano alla TV che sarebbero tutti stati uccisi, che non ci sarebbe stata pietà per loro, che avrebbero pagato caro il loro azzardo.

Alla Slovenia è andata di lusso, e ben lo sa il mio amico, e ben lo sapeva quando mi ha raccontato questo aneddoto, con uno strano sorriso sulla faccia, con il suo modo di affrontare le cose sempre un po’ scherzoso, distaccato e allegro. Ci sono stati ben altri orrori, pochi anni dopo, accanto a casa nostra: mentre noi ci fumavamo le prime sigarette, ci davamo i primi baci, pigliavamo le prime sbronze, i nostri coetanei venivano sbranati da mine e mortai, e alle nostre coetanee andava anche peggio, al di là dell’Adriatico.

Eppure è ugualmente terribile questo piccolo aneddoto, la ferocia di questa immagine, la cattiveria del gesto. Ed avere davanti il bimbo di allora, che veniva posto di fronte a tanto mentre io pregustavo la fine della seconda media, e che oggi me lo racconta con semplicità, cercando più che altro di capire e di farmi capire lo stato della madre, più che il suo, mi ha toccato.

Sfida all’OK Corral

Luogo: un incrocio viennese (Brückengasse/Gumperdorferstrasse/Stumpergasse).
Io: in auto.
Lui: a piedi.
Io: determinato a ricordarmi che in Austria i pedoni sulle strisce hanno la precedenza. E tanta paura di sbagliare.
Lui: elasticità mentale di un bue muschiato.
Io: sto superando un incrocio fatto in modo un po’ sbilenco.
Lui: sta davanti alle strisce.
Io: mi fermo per farlo passare e lo guardo.
Lui: non passa e mi guarda.
Io: lo guardo.
Lui: accenna appena al semaforo dei pedoni, che è rosso.
Io: guardo il semaforo dei pedoni.
Lui: resta immobile.
Io: capisco e indico il semaforo dei pedoni, che continua ad essere rosso, come a dire “Ho capito, ora vado”.
Lui: sta e mi guarda come a dire “Sarà il caso”.
Io: rido e me ne vado.
Lui: resta nella ferma convinzione d’essere nel Giusto.

Capitani coraggiosi

21 anni fa, di questo periodo, moriva, dopo che mia madre l’aveva aiutato a farsi il segno della croce e dunque, in virtù di questo, serenamente, mio nonno Vincenzo. Oggi avrebbe 106 anni.
Doveva in realtà chiamarsi Guido, ma il parente o chi per lui che andò all’anagrafe si dimenticò il nome, e pensò che Vincenzo andasse benissimo.
Era l’ultimo figlio di una famiglia palermitana di capitani di marina.
Da piccolo, quando stava per cominciare la prima guerra mondiale, andava al porto a vedere i bastimenti che arrivavano, e poi andava a riferire a suo nonno, quasi cieco da tempo, che si faceva ripetere la stazza delle navi alla fonda, ripetendo incredulo cifre che, per un uomo abituato alle vele e non al vapore, non potevano essere comprese.
Mio nonno, mi concedo una licenza, recitava con serietà la sua parte, nel grande palcoscenico della vita. Era meridionale, e per questo si sentiva in dovere di essere ferocemente geloso e attaccare – letteralmente – al muro chiunque indugiasse a suo avviso un po’ troppo sulle forme di mia nonna. Era siciliano, e dunque piuttosto maschilista. Era un marinaio, e aveva amiche in ogni porto. Era capitano di marina, e dunque monarchico. Era anche uomo all’antica, che credeva nella dignità dell’uomo.
Passò il tempo, durante il secondo conflitto mondiale, ad incrociare nel mar mediterraneo. Mi raccontava, con la voce austera gelida nel suo disprezzo, di come gli inglesi passassero con la mitragliatrice i naufraghi in balia delle onde, a dispetto di tutte le leggi del mare, e di come una volta, interrogando in merito a questo un capitano anglosassone prigioniero, per l’appunto raccolto in mare, si sentì rispondere “È la guerra”. Mi raccontava di Cipro, di Creta, di Gibilterra; di come una volta avesse sentito, nel silenzio assoluto, i denti di un sottoposto che battevano forte dal terrore, mentre in una notte buia aspettavano il bombardamento, in mezzo al mare.

Che io sappia non ha mai fatto naufragio, l’unica volta in cui lo avrebbe fatto fu chiamato appena in tempo, mentre saliva la passerella di una nave che sarebbe stata colata a picco subito fuori dal porto di Palermo (nessun superstite), perché sua madre era morta. Una sorta di salvataggio in extremis, verrebbe da pensare.

Non so cosa farei io se fossi il capitano di una nave grande come un comune e tale nave stesse affondando. Non so se avrei il coraggio di restare a bordo a coordinare i soccorsi col rischio di crepare. Non so, soprattutto, se avrei il coraggio di far tutto questo dopo aver fatto un’immane cazzata, per altro concordata con la compagnia.

Non so nemmeno cosa avrebbe fatto mio nonno. Però ho alcune convinzioni. Non credo che mio nonno sarebbe passato così vicino ad un’isola. Credo però che probabilmente nemmeno la compagnia gli avrebbe chiesto di farlo per rendere felici i menefreghisti a bordo, che consumano paesaggi come fossero popcorn, e li vogliono vedere vicini. Non credo che mio nonno avrebbe lasciato la nave, la sua nave.

Oggi il senso dell’onore, della dignità di un uomo, il senso del dovere, sono tutte cose che, in Italia, sono considerate da sfigati, da perdenti, da piglianculo.

Mio nonno, con tutti i difetti che poteva avere, era un uomo che credeva nella dignità dell’uomo e nel suo onore. Per questo era capace di vegliare, già vecchio, suo nipote in vece di sua figlia stremata dalla stanchezza, e la mattina esser di nuovo pronto a farlo, e a farlo ancora, senza mostrare il minimo segno di stanchezza, come fosse la cosa più normale del mondo. Perchè, per lui, in effetti era la cosa più normale del mondo che un uomo si comportasse così.

C’è tanta voglia di eroi, in Italia, basti guardare il buon De Falco e come sia stato incensato.

Cosa lascia perplessi è  che l’italiano di oggi desidera ardentemente che l’eroe ci sia, ma che non sia lui stesso: d’altra parte perché proprio lui?

l’evoluzione dei padroni

garzoni

aspiranti garzoni edili in Triesterstraße

chi mi vuole per garzone
che lo voglio per padrone!

Comincia così la fiaba “I tre orfani” raccolta da Italo Calvino nel suo – splendido – “Fiabe Italiane”, che mi sta accompagnando da quando ero piccolo, e che mi sono portato a Vienna. Mi ha sempre colpito questa specie di filastrocca con cui, nella miseria nera, uno ad uno i tre orfani si immettono nel mercato del lavoro (come si dice oggi). Soprattutto le condizioni contrattuali – l’unica richiesta è: lavorare. Chiunque soddisfi questa richiesta basilare, semplice, ineccepibile, corrisponde all’idea di datore di lavoro, anzi di padrone, che il giovane desidera: non v’è menzione circa il salario, le garanzie, le ferie pagate, la maternità, la malattia. Non mi sembra un caso che la fiaba, per altro, provenga da una terra dura, aspra e bella come la Calabria.

Ogni mattina, per andare al “mio” castello (come dice Peppe “il castello di papà”) passo per la Triestestraße (dimenticano facilmente, qui), che mi conduce fuori Vienna. Lungo questo stradone sta un Obi, uno di questi grandi magazzini per il bricolage, ovvero per chi ha delle pruderie da homo faber, ma non la stoffa (tipo me). Davanti ad esso, ogni mattina che dio mette in terra, qualunque sia la stagione, la temperatura, lo stato del vento e l’umidità dell’aria, si affollano i braccianti.

Sono dai 4/5 fino a 20, ad occhio, saltellano da una gamba all’altra, si danno grandi pacche sulle spalle, si stringono nelle spalle, si alitano nelle mani. Ridono, scherzano, stanno appoggiati ad un lampione, fanno a botte, si gridano dietro, si guardano minacciosi.

Ma fondamentalmente aspettano che qualcuno li passi a prendere – ovvero dia loro una giornata di lavoro.

Condizioni contrattuali, sicurezza, sindacati, malattia, maternità: tutto questo non esiste. La capacità contrattuale di questi disgraziati consiste nel poter dire: “No grazie, per oggi resto a gelare sul marciapiede”.

Volendo continuare a metterla sul piano del “Va avanti chi ce la fa”, preoccupandosi più di non dare privilegi a chi non li merita, che di aiutare chi è più debole e più nel bisogno, non facciamo – non faremo – altro che aumentare la massa degli sconfitti, di coloro che non ce l’hanno fatta, dei deboli. E quando i deboli e gli sconfitti diventano molti, molti di più dei vincitori, dei forti e dei furbi, i ruoli si scambiano velocemente.

Per fortuna lo stato austriaco non è stato a guardare. Cosa ha fatto? Un rapido blitz con un paio di furgoni di poliziotti e due volanti – una retata vera e propria – e un bel controllo documenti, fatto lì sulla strada, ai disgraziati ad aspettare. Un gesto di elegante impotenza, come quando un bimbo grande ti fa un dispetto, e tu per la rabbia meni il primo più piccolo di te che ti si para davanti.

Macro-Ragioni Climatiche (sulla rigidità di taluni popoli)

Con la mia dolce metà (meta?) parliamo parecchio. Un cameriere l’altro giorno me l’ha pure chiesto:
“scusa ti posso fare una domanda personale?”
“vai”
“tu e tua moglie convivete, no? – annuisco – da quanto?”
“ma senti, convivere da sei anni, insieme da tredici”
“ecco ma com’è che c’avete ancora tutte ‘ste cose da dirvi?”

Ma non sbrodoliamoci addosso: volevo dire che si finisce spesso per ragionare sulla rigidità austriaca, io e la mia bella.

Lo scorso inverno, mentre camminavamo per buie strade periferiche di Vienna, nevicava, il passeggino procedeva a stento, Peppe già cominciava ad incazzarsi di brutto, ho avuto un piccolo lampo.
Qua in Austria, d’inverno, non si scherza. O meglio, nella storia non s’é mai scherzato molto.
Qua d’inverno si moriva di freddo, ma per davvero. Da mangiare c’era poco (neve dappertutto), e le cose andavano pianificate ammodino: non è che uno dice “esco” e va. Qua se facevi il furbo e rimanevi a giro per un qualsiasi motivo, semplicemente ti trovavano il mattino dopo come un diacciòlo. E comunque tipo in Finlandia è ancora così: se ti si ferma la macchina di notte in inverno, o hai un telefono, o hai chi ti accompagna con una seconda macchina, o buona notte ai suonatori.
Non è come da noi, che si fa sempre a tempo, che si può sempre rimediare, che se oggi piove, domani sarà bel tempo, che se hai dimenticato il giubbotto, patirai un po’ fresco, che se non hai portato i guantini della belva, pazienza, che se Berlusconi s’è mangiato tutto, poi viene Monty. Da noi finisce sempre a tarallucci e vino, alla volemosebbeneannamoavanti, alla “che c’hai’na sigaretta? prestame cento lire” (cit. Remo Remotti). Perché è vero, non si ha mai la percezione dell’ineluttabilità, del non ritorno, del definitivo.

E così, ogni sprazzo di sole son barbecue a palla, sono parchi gremiti di carrozzine, sono poppe al vento (che Dio le (ri)benedica), gite fuori porta.

Un sabato mattina c’era una bellissima stagione: sole, caldo, un incanto. “Vabbè, dai, usciamo dopo pranzo, tanto è estate”.
Nero, vento, pioggia e freddo. Pareva autunno inoltrato, nel volgere di un paio d’ore.

Un inverno di diversi anni fa, una la mia amica M., della Stiria, una regione a sud ovest di Vienna, si trovava alla stazione di Palermo. Sente parlare nel suo dialetto, si volta, e non vede nessuno. Poi abbassa lo sguardo e vede un paio di barboni, sdraiati in mezzo ai cartoni, che chiacchierano.

“Ma voi siete austriaci! Siete della Stiria!” esclama M. felice ed incredula

“Sì” rispondono loro

“E che ci fate qui a Palermo?”

“Semplice: d’estate giriamo per l’Austria, o se ci va da qualche altra parte, chè si sta freschi. Ma d’inverno veniamo giù, che si sta al calduccio e non si muore di freddo!”.

La storia lo ha insegnato loro: qua se non eri preciso, ordinato, metodico, semplicemente tiravi le cuoia. Qui se sbagliavi morivi, se ti fermavi eri perduto.
Ora ovviamente non è più così, per niente – a parte i barboni, ora che ci penso, e chissà, magari anche altri – ma capisco lo strutturarsi, nel tempo, di una cultura dura, spietata, pratica.

E se per generazioni la natura ti tratta con poca gentilezza, beh, si può capire un po’ di ruvidità.

 

Werkstätten Und Kulturhaus

Domenica d’Ottobre, qua fa già piuttosto freddo – per gli standard cui sono abituato. La famiglia va a visitare il WUK, che è aperto tutto il giorno per via di una festa per i bimbi.

 

Il WUK, ovvero “Laboratori e Centro Culturale” è un posto molto interessante. C’ero stato anni fa per un evento organizzato ad un nostro amico artista che sta qui a Vienna – un giorno vi racconterò di lui.

È un complesso di edifici, non molto grande, con un cortile interno, che ricorda l’università di Berlino Est, quella piena di edera, in mattoni rossi. Dentro ci sono laboratori, un auditorium, un asilo, un bar. I laboratori sono molto ben forniti: quello di falegnameria ha seghe circolari, a nastro, pialle, roba professionale di buon livello – per quel che mi par di capire data la mia esperienza nella bottega di mio padre. La cosa ganza è che sono aperti, e che gli aspiranti artisti, falegnami, scultori, fotografi, possono fruirne liberamente. Se hai voglia di esprimerti, lo puoi fare.

La giornata per i bambini consta nei laboratori aperti, con alcuni dei fruitori più assidui – mi par di capire – a dar man forte ai genitori e ai mostriciattoli proponendo alcune attività di base, tipo far delle maracas con piatti o biccheri di carta e semi o legumi secchi: roba da lupetti, per intendersi. Oppure suonare gli strumenti musicali prodotti dai provetti frequentatori (si va da roba di merda che vien da vergognarsi e piccole meraviglie dell’ingegno umano che andrebbero secondo me esposte, o quantomeno suonate professionalmente), cosa che i bimbi fanno con particolare accanimento, essendo prevalentemente strumenti a percussione.

Peppe ne approfitta per testare la risonanza della scatola cranica di una ex-compagna d’asilo, che – effettivamente – a seguito della percussione (percossa?) produce suoni a profusione, magari non quelli che Peppe sperava, a giudicare dalla sua espressione delusa, ma insomma suoni.

Dopodichè arriviamo alla discoteca.

Il primo impatto è esilarante: una pista da centro sociale, abbastanza lurida, tutta scura, con luci da disco che saettano in tutte le direzioni, frastuono da serata all’Ex-Emerson (quando ancora era al capolinea del 14), puzzo simile (senza però odore di tabacco o cannabinoidi combusti) misto di chiacchere e musica, un dj con l’immancabile Mac ben esposto, compreso del suo ruolo.

In pista: famiglie.

Bambini che ballano in braccio o davanti alle proprie madri, cuscini in cui si rotolano padri e figli, pozze di palline di plastica entro cui bimbi di varie età se le suonano di santa ragione, materassini su cui dormono lattanti stravaccati.

Il tutto condito da una musica che, per un adulto è alta, per un bimbo è l’equivalente del volume di un rave party quando stai davanti le casse (esperienza che per altro mi sento di consigliare).

La prima impressione positiva (“hai visto bellini”) scolora in un discreto disagio (“ma che cazzo stanno facendo?”) ed emigriamo fuori. Il posto è alla fine abbastanza alienante, i bimbi sono storditi dalla musica e dalle luci (e francamente non ne vedo molto la necessità: quando vogliono, sanno perfettamente come stordirsi, e lo fanno senza l’ausilio di strumenti esterni, di tipo chimico, meccanico o altro), i genitori si divertono magari, ma insomma mi garba il giusto.

Optiamo per andare a ripigliarci nell’asilo del WUK, che consta in uno stanzone tagliato a metà da uno scivolo lungo come un trampolino per il salto con gli sci (che pare anche sia l’unica vera attività svolta nell’asilo – lo scivolo, non il salto con gli sci – stando a quanto riportano insegnanti ed avventori, entrambe le tipologie di soggetti fortemente entusiasti della dotazione), popolato da alcuni genitori che si fanno un teino mentre i bimbi giocano ai pirati di là.

Sono strani, gli austriaci.

La discoteca per bambini al WUK

Viale al tramonto

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L’ho vista di lontano, mentre tornavamo a casa dal parco io, Peppe, Tim e William (con quest’ultimo Peppe intrattiene da quando avevano entrambi pochi mesi una regolare corrispondenza di botte, schianti e frignate).
Rigidamente curva, come fosse fatta interamente di vetro, arrancava trascinandosi una sporta modernissima, ultraleggera, dotata di un manico in alluminio da fare invidia ai rover della NASA su Marte, probabile regalo di un figlio sollecito e premuroso. La mia vicina, credo oltre i novanta, portati malissimo.
Mentre copriamo una cinquantina di metri riesce ad afferrare la borsetta, dopo aver sistemato la sporta in posizione eretta, appoggiato il bastone accanto al portone, e compiuto altre laboriose operazioni che non sto a riportare.
Fra me e Tim contiamo due passeggini, due borse e due bimbi.
Con un rapido e incerto scambio di battute Tim, inglese che parla un ottimo tedesco, capisce che la cariatide apprezzerebbe un aiuto da parte nostra. Dunque: io apro la porta e la tengo aperta (è a molla ovviamente) per far entrare nonna Austria, nel frattempo le due belve irrompono facendo quasi cadere la poveretta, che ha intrapreso le operazioni d’imbarco. Con un grido affatto mediterraneo, che mi vale l’appellativo di padre degenere, blocco le due belve sulle scale, mentre la vecchia avanza sul secondo gradino. Nel mentre Tim ha disposto una fila di passeggini così da facilitare l’entrata dei mezzi e dei bagagli.
Abbandono la vecchia al suo destino, fatto di gradini, corrimano e bimbi da evitare, e mi dedico ad aiutare Tim che sta imbarcando i passeggini con destrezza da Godzilla.
Chiudo la porta, prendo passeggino e borsa che mi competono e supero la vecchia (che già ha superato la prima rampa di quattro scalini e si appresta – battagliera – a sfidare la seconda, insidiosissima, di ben otto). Giungo all’ascensore: la macchina infame è un coerente prodotto della peggior cultura borghese.

Breve excursus polemico: a piano terra si apre solo con la chiave, e solo con essa, tenendola girata, è possibile farlo salire premendo in contemporanea il bottone del piano. Logaritmi che nemmeno Obama deve fare se vuole sganciare una bombetta atomica, e se hai una mano sola, infatti, il merdosissimo bottone del piano lo devi pigiare col naso. Per scendere invece, cioè per levarsi dalle palle, funziona benissimo e a gratis. In più scende sempre, autonomamente, a piano terra ogni volta che lo lasci solo per qualche minuto. Quando vengono ospiti, mi sento sempre a disagio per l’evidente mancanza di cortesia nei loro confronti arrecata dal mio ascensore. Ma vabbè.

Arrivo all’ascensore e apro la porta (che ovviamente ha una molla per richiudersi così potente che ci puoi tagliare un bue a metà). Con orrore realizzo che sarebbe poco carino andar su e lasciare la vegliarda a bocca asciutta. Tanto più che sta al mezzanino. E allora aspettiamo.

In meno di mezzora copre il corridoio e la rampa e, infine, giunge. Peppe già si succhia il dito in cerca di conforto.
Facilito le operazioni di ingresso tenendo la porta, e quando la vedo ormai autonoma, chiave alla mano, bastone appoggiato e dito (l’altro) sul tasto “M”, chiudo la porta.

Dopo un po’ di tempo, l’ascensore parte.

Sento che arriva al mezzanino, e premo la chiamata.

Dopo un po’ torna.

Apro la porta e ritrovo la vecchina, la chiave ancora nella toppa, che fra il mortificato, il fatalista e il divertito, mi dice: “È stato più veloce lui”.

La civiltà dello scooter (sull’arroganza)

A Firenze, complici un clima tutto sommato mite e un susseguirsi di amministrazioni comunali senza fantasia, fiorisce da qualche anno la civiltà dello scooter.

Questa possibile evoluzione della civiltà occidentale non prospera ovunque, grazie al cielo (nel senso del clima), ad amministrazioni più capaci, e forse anche a culture più evolute.

Un esemplare tipico di tale civiltà possiede un moderno scooter giapponese, di quelli col profilo da nave baleniera, lungo come una macchina, con una marmitta catalitica che fa vibrare cuori e cristallerie, dalla guida sportiva in posizione sgraziata, che regala grandi emozioni e artrosi a chi guida il potente mezzo (che ha una cilindrata da trattore a cingoli anni sessanta di marca cecoslovacca). Con questo elegante cetaceo della strada, il nostro (che chiameremo affettuosamente  Gastone) fende i flutti del traffico veicolare cittadino con nonchalance. Non vi fate ingannare dai miei fronzoli: i movimenti del mezzo non hanno nulla di aggraziato. Il buon Gastone, infatti, complice un assetto calibrato sul peggior autista reperibile in zona Yokohama, bauscula a destra e a manca, evitando pericolosamente tutto ciò che si trova in carreggiata per pochi peli, con una grazia da facocero. Questo semplicemente perché non sa guidare, nessuno glielo ha mai insegnato, nessuno si prende la briga di farglielo notare, e Gastone stesso, infine, è convinto di essere un asso delle due ruote. Bravi i Giapponesi, nulla da dire. Riuscire a far sentire Valentino Rossi un dramma della guida come Gastone non è cosa da poco, e si meritano le migliaia di euri che il nostro ha generosamente investito per l’acquisto dell’orrido mezzo (che chiameremo Moby in ossequio al meno gentile omologo). Per completare il quadro: Gastone vive e lavora a Firenze, ha un casco a padella che gli copre un decimo del cranio – rasato ma non perchè ha una incipiente e impietosa calvizie, ma perchè a lui piace così – e gli occhiali a goccia.

Ma il problema estetico, sia per quanto riguarda Moby che lo stile di guida di Gastone, è tutto sommato marginale.

Il vero problema è l’attitudine di Gastone alla guida, ovvero alla vita in generale. Gastone è infatti convinto di avere la Precedenza. Non in senso lato, né in senso metaforico o stradale: egli crede di avere precedenza sul suo Prossimo, ovvero su tutti.

Un esempio pratico: se un autista distratto si è fermato per fare attraversare una mamma con figli e sacchi della Coop a seguito, e a causa di questa grave debolezza si è formata una coda di macchine, Gastone se ne fotte. Con un colpo di reni (grazie a dio ben bilanciato da Moby, altrimenti Gastone formerebbe ora un grazioso fregio sullo spigolo dell’edificio prospicente la manovra) egli evita la coda, la sorpassa senza modificare la propria velocità, si infila fra la mamma – paralizzata dall’orrore – e il sacchetto delle verdure (che essendo di quella nuova sostanza biodegradabile che sa di popcorn si sfalda subito a causa dello spostamento d’aria), e prosegue il proprio cammino come nulla fosse.

Al semaforo, Gastone si infila fra le macchine, decora gli specchietti laterali con pregiate incisioni, e si piazza davanti a tutti sulla linea bianca. Se ci sono altri scooteristi, si infila fra di essi, altrimenti va direttamente sulle strisce pedonali, accomodandosi fra vecchine e passeggini. Dopodiché si accende una sigaretta, compone un numero di telefono e si infila il cellulare fra orecchio e casco. Quando scatta il verde, Gastone ha incastrato momentaneamente la sigaretta sulla leva del freno, e, mentre grida al vivavoce, sta cercando un indirizzo sul suo telefono intelligente (1). Gli scooter sono intanto tutti partiti, a parte altri due che si stanno sfidando a battaglia navale via dente-blu (2), la prima macchina è una Simca 1000 con al volante una vecchina, che sconcertata attende. Quelli dietro, che la sanno lunga e sono un po’ più navigati, attaccano a suonare tutto il loro disappunto. Gastone a questo punto perde le staffe: con una manata fa volar via il cicchino, congeda l’interlocutore telefonico con un secco “scusa, non hai idea di che stronzi ho dietro al culo”, re-incastra il cellulare fra orecchio e casco, si gira, manda affanculo la vecchina chiedendole – bicipiti al vento – cosa cazzo voglia (omettendo il congiuntivo – va detto), dopodiché sgassa e riparte.

Ora: avete mai visto tanta crudeltà – chiederebbero in un film di Mel Brooks?

Il fatto è che Gastone sa che il traffico di Firenze senza di lui collasserebbe in un attimo, ed in virtù di questa Conoscenza egli se ne fotte. Inoltre, nel caso ci fossero residui di perplessità circa tale atteggiamento, egli è più veloce, e dunque si sbriga prima, e non ha senso che aspetti.

Nessuna amministrazione fiorentina sino ad ora – sorprendentemente nemmeno l’ottimo Renzi che è bravissimo, nuovissimo e pieno di innovative idee (ad esempio tenere aperti i negozi il primo Maggio: ci avevate mai pensato voi? Io no: incredibile il Renzi), dicevo nessuna amministrazione comunale si è presa in alcun modo la briga, infatti, di pelare l’odiossissima gatta che è il traffico a Firenze, imponendo qualche iniziale misura impopolare – rischiando dunque, ma applicando un’idea politica almeno – per poi bearsi di un sistema, tipo quello Viennese, in cui non conviene pigliare la macchina, semplicemente. Da qui si potrebbe misurare con un grado piuttosto accurato l’incapacità e la pochezza dei politici della città del Rinascimento, ma insomma, non divaghiamo.

Questa attitudine di Gastone, purtroppo, non si limita alla sola guida. Ma anche qui, nessuno si è preso la briga di pelare questa gatta.

A Vienna, guidare è un’esperienza diversa. Ho trovato stranissimo percepire, in modo sempre più completo, come il traffico sia un habitat con molteplici dimensioni, che differiscono dal “tuo” traffico in sfumature e aspetti più corposi. Pensavo che fosse più semplice, tipo “a Vienna il traffico è più ordinato”, e banalità del genere.

In Austria, comunque, ho trovato, in strada e non, un’attitudine algida ma positiva – o forse rassegnata, chissà – nei confronti del prossimo. Se ti fermi in mezzo alla strada con la macchina (hai forato, ti si è spenta, t’è venuta voglia di fare una sveltina con chi ti sta accanto: quel che volete), la gente non suona quasi mai. Aspettano pazienti, e se vedono che va per le lunghe, al massimo cambiano corsia e proseguono signorili, senza sbracciarsi fuori dal finestrino, gridando improperi. Semplicemente pensano che, se stai rompendo loro i coglioni, tu lo faccia per un motivo serio, per un ottimo motivo che merita la loro comprensione, e mai che tu ti stia facendo beatamente i cazzi tuoi.

Se in Austria ti stai facendo i fatti tuoi sul marciapiede, vedi di farlo lontano dalle strisce. Automobilisti, camionisti, scooteristi e motociclisti, infatti, si immobilizzano senza indugio in prossimità degli attraversamenti pedonali, se un pedone minaccia, anche solo vagamente, di attraversare. E aspettano finchè l’intera operazione non è terminata. Nel caso tu indugi, ecco, magari in quel caso sì, dopo un cinque minuti ti fanno un colpetto di clacson, così che tu sappia (magari lo ignori – a me è capitato) che loro stanno aspettando che tu attraversi, e che se non vuoi attraversare, basta che tu ti allontani dalle strisce, altrimenti loro devon star lì. Certo, poco elastici, ma volete mettere la bellezza di attraversare la strada sulle strisce senza guardare?

Un altro piccolo particolare: in Italia scatta prima il verde per le macchine, e poi quello per i pedoni. In questo modo, il pedone che vuole attraversare è costretto ad aspettare che le macchine che svoltano siano passate, perché son partite prima di lui. In Austria è il contrario, così che le auto e gli scooter che devono girare, trovano già una fila di pedoni che, seraficamente (e secondo me anche un po’ strafottenti), attraversano, e devono aspettare loro.

Insomma, si ha la sensazione che il più “forte” debba dare la precedenza al più “debole”, ovvero più veloce vai, meno hai bisogno di precedenze.

Come il buon Gastone. Uguale.

l'immagine non è proprio pertinente, ma insomma, è carina!


(1) smartphone egli lo chiama.

(2) bluetooth, in inglese nel testo.

Non volersi bene (ovvero far le cose di malavoglia – ovvero a cazzo di cane)

lavoro di fino

un lavorino di fino

Questa meraviglia è il frutto di una mattinata di lavoro di un solerte ed incomprensibile caldaista viennese.

Ma partiamo dall’inizio.

La nostra padrona di casa (Frau Pollack) pattuisce con noi una cifra per l’affitto, un ottimo affare per la casa, che però non può essere affittata a molto perchè non “renoviert”. Poi scopre che deve rifare la cucina, e da signora la rifà. Cerca di tirar su il prezzo, ma la Molino tiene duro, e accetta solo un piccolo rialzo. Qua se fai un lavoro alla cucina, devono venire i marcantoni della Wien Energie a controllare che sia stato fatto a modino – mica cazzi. E dopo un mese e passa dal lavoro (potevamo essere morti per le esalazioni, ma insomma non ci formalizziamo) arrivano due tizi – che svegliano tutti perchè sono le 7.17. I due, alternando prove di grande spessore tecnologico ad empirismi alla MacGyver sentenziano che le emissioni gassose della caldaia superano la soglia di parecchio; ma parecchio. Insomma la spengono, dicendo che loro la devono spegnere. Però ci fanno anche vedere come si fa a riaccendere (sono cazzi nostri se muoriamo, beninteso, ma hanno il buon cuore di farci morire puliti). Provvederanno loro a dire all’amministratrice condominiale che provveda. E se ne vanno.

Il mattino dopo arriva un tizio. In casa ci sono io, e, a gesti, ci comunichiamo a vicenda che non capiamo un cazzo l’uno della lingua dell’altro. Per rimarcare l’abisso che ci separa, l’ometto (che ricorda stranamente un orsetto lavatore, un operoso procione) rifiuta anche il caffè (ancora mi vengono le lacrime al pensiero: un caldaista che mi rifiuta un caffè – un caldaista viennese che mi rifiuta il mio espresso arabica coop fatto con la bialetti: selvaggio). Comunque mi fa capire che lui la caldaia non la può riparare perchè è di marca a lui non cognita. Dirà alla compagnia di mandare qualcun’altro. Bah. E va via.

Arriva un altro tizio, smadonna un po’, e poi che dice che la caldaia è rotta e va cambiata. Per corroborare la diagnosi, prova ripetutamente – con uno sguardo che cerca il mio assenso – ad accenderla senza successo. E se ne va.

Il mattino dopo arriva una Frau Pollack provata, ma sempre signorile. Trova “komisch” che la caldaia abbia smesso proprio ora di funzionare. Era vecchia, ma insomma. L’enorme uomo della caldaia (è uno mai visto: lui il caffè lo ha preso nonostante abbia delle extrasistole che gli tremano le tonsille – mi fa capire e io capisco) ribadisce, con eloquenti gesti fatalisti, che non c’è altro da fare che cambiare la caldaia. La signora si conficca una forchetta nel palmo, inspira, e dà l’assenso. Siamo pur sempre un paese civile: inquilini che puzzano non se ne vogliono. E lascia amabilmente la scena. (in realtà sono sinceramente grato alla Frau Pollack, che ha speso una fortuna ed è stata sfortunata, ma che si è comportata in modo oltremodo urbano).

Ecco, io dico: un paese che ti segue, veglia sui tuoi sonni, controlla che tu non schiatti per le esalazioni o che tu faccia saltar per aria una palazzina, in cui non si lasciano gli inquilini senz’acqua calda nemmeno d’estate (se così la vogliamo chiamare), in cui c’è dialogo (al di là del grazioso siparietto col caldaista, pensate all’inusuale colloquio fra il gestore locale di energia e l’amministratrice condominiale), ecco, in un paese così alla fine però non ci si vuole bene.

O che si fa un accrocchio di tubi in quel modo, con le mattonelle scassate a cazzo di cane, tutto sporco, con la scatola dei collegamenti che penzola? Questo si chiama non volersi bene, o per lo meno non abbastanza, e qui lo fanno sempre.

Vedi queste facciate linde, immacolate, perfette, poi ti avvicini, e lo stipite della finestra è messo storto, con la vernice che ha smerdato il muro.

Queste case strafighe, con i mobili che paiono tutti pezzi unici, il parquet che ci puoi trascinare un bebè per le gambe che il culo non gli si graffia nè irrita, e poi le mattonelle del cesso sono sbregate per far sortire il tubo che va al termosifone, con tutta la polvere e i lanicci che fan festa nel buco.

‘Sti omìni vestiti bene, distinti, col fazzoletto che esce dal taschino, che ti mozzano il fiato per il puzzo di sudore (e via, se lo dico io buona camicia a tutti).

La gente qua si tratta bene, ma con la testa è altrove, non ti vogliono bene per davvero.