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Botte e pannolini (omaggio alle ostetriche)

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Poco più di tre anni e mezzo fa nasceva Peppe. Allora, dopo i primi giorni passati nella maternità di Careggi – in pieno clima di caccia al fannullone post-deliri di Brunetta, decisi che avrei dovuto, prima o poi, omaggiare le ostetriche, cui mi sentivo di dover molto, anche per render giustizia almeno ad una piccola parte profondamente lesa del mondo del lavoro. In questi giorni, dopo la nascita di Anita quassù in Austria, credo sia giunto il momento di rendere omaggio.

Le ostetriche, ne ebbi sentore nel maggio del nove, e ne ho avuta una specie di conferma nel dodici qui in Austria, appartengono ad una setta, una confraternita, una sorellanza che affonda le proprie radici in un tempo ancestrale. Temevo non poco di trovarmi in sala parto senza capire una minchia, visto che il mio tedesco ancora non eguaglia nemmeno quello delle sturmtruppen. Ma la lingua delle ostetriche è una sola, fatta di riti, gesti, sussurri, comandi, carezze, botte. E sono tutti così antichi che non c’è bisogno di capirli: si sanno.

Ogni volta che vedo un’ostetrica con in mano un neonato, penso a quando raccontavo ai miei lupetti di Mamma Lupa, il personaggio del Libro della Giungla che cresce Mowgli: pur avendo mandibole in grado di spezzare un osso di bue, con le stesse zanne è in grado di spostare i propri cuccioli senza il più piccolo graffio. Oppure alla cagna che avevamo quando ero piccolo, che grande e grossa era in grado di saltare in mezzo ai suoi undici cuccioli senza mai calpestarne uno. E se il paragone può sembrar quasi offensivo, per me è il più preciso, e racchiude tutto il mio stupore e ammirazione. Le ostetriche trattano i bambini con modi decisi, quasi bruschi, senza tentennamenti, come le movenze di chi ripete gli stessi gesti da millenni. Eppure con una dolcezza infinita. E lo stesso vale per tutto quel che fanno.

Ho sentito porre, dalle mie e dalle labbra di altri babbi, le domande più evidentemente idiote che siano mai state pronunciate sulla faccia della terra, domande che alla fine sono semplici richieste di rassicurazione: mai ho sentito rispondere in modo brusco, annoiato, stizzito, mai toni di sufficienza. Le ostetriche sanno anche guardare con tenerezza a quella strana protesi che è il babbo. Diciamocelo chiaramente: siamo probabilmente più inutili delle zanzare, in sala parto. Se va bene, i padri svengono: in questo modo vengono sgomberati dalle palle e fino alla fine delle danze nessuno se ne deve più preoccupare. Certo, facciamo folklore: come non sorridere di fronte ai cori da stadio improvvisati assieme agli altri babbi quando torna una puerpera dalla sala parto, agli abbracci e alle pacche come si fossero fatte insieme le medie, alla finta indifferenza con cui tendiamo le orecchie fino allo spasmo per carpire la risposta ad una domanda che – grazie al cielo – un altro babbo è riuscito a formulare, togliendoci un paio di dubbi atavici, e risparmiandoci al contempo l’ennesima figura da imbecille di fronte all’ostetrica di turno. Le ostetriche non solo riescono a tollerare questo indegno spettacolo, ma ci trattano con affetto, cercando anche di coinvolgerci, tipo quando ti fanno tagliare il cordone ombelicale (ecco, la prossima volta eviterei volentieri, ché si vanifica in un attimo tutta una lotta contro lo svenimento, sorvolando sulla somiglianza col pulire i calamari).

Credo che molto abbia a che fare, oltre che col fatto di praticare un mestiere antico come il mondo, con la dinamica del parto stesso. Di fatto, un’ostetrica è una donna che costringe una sua consimile non solo a non fuggire da quel dolore totale, immenso e accecante, ma addirittura a gettarvicisi in mezzo, perché sa che l’unica via d’uscita passa proprio da lì. E questo le permette, probabilmente, da una parte di lasciar perdere tanti fronzoli, dall’altra di mantenere un livello di compassione elevatissimo, senza il quale io credo un’ostetrica non potrebbe fare il proprio mestiere. La sensazione è infatti che ci sia una forma antichissima di amore fra la partoriente e l’ostetrica.

Il parto è un momento totalizzante, anche per noi papà. Sembra che il fluire del tempo, della storia, del mondo stesso, rallenti fino quasi a fermarsi, in un tempo presente assoluto, e nello stesso tempo si restringa fino a quello stretto canale, che la creatura percorre con lentezza, millimetro a millimetro, fitta dopo fitta. La descrizione più bella e fedele di cosa sia il parto per un uomo l’ho sentita da un collega di colleghi, un romano, una volta a pranzo, pochi giorni prima che nascesse Peppe. Non l’avevo mai visto, ed era l’unico degli astanti che avesse assistito ad un parto: gli chiesi come fosse, visto che ci sarei andato. “Mah…devi capì che…cioè…è ‘na cosa bbella…però vedi tu’ mojie in una condizione che….cioè…teribbile…però è pure bbello, cioè…sangue dappertutto…però emozionante eh…anche se la vedi soffrì e nun puoi fa’ gnente…insomma: nun se po’ spiegà, però vacce!”

Infine, mi ha sempre affascinato moltissimo il tormentato rapporto fra medici ed ostetriche. Da una parte c’è la scienza, la forza di chi porta quel verbo che ha salvato milioni di vite, sconfitto malattie, riaggiustato ciò che il padreterno ha tralasciato. Dall’altra una signora che, guardandoti col sopracciglio incurvato, sembra dirti che se ne frega tre cazzi della tua scienza, che lei sono millenni che fa nascere creature, e che fino a prova contraria come si fa a far partorire una donna lo sa lei. Entrambe le forze hanno ragione, una forse è più affascinante, antica e fisica, l’altra più intellettuale, razionale, algida. Però, entrambe giocano e sanno giocare. C’è un limite fra le due discipline, ma da entrambi i lati della linea sottile vige una regola ferrea: poche palle. Quando comanda l’ostetrica, ovvero finché il parto è naturale, comanda l’ostetrica. Mentre Peppe cercava la sua via d’uscita, l’ostetrica chiese alla ginecologa di sostituirla per dieci minuti. Nel chiederlo, mimò con ostentazione il gesto di chi fuma. Tornò che puzzava di fumo come un pub, ma anche con rinnovata energia: cominciò a gestire (sì, gestire: normalmente detesto questo verbo applicato alle persone, ma in questo caso è l’unico appropriato!) le ginecologhe e le altre ostetriche presenti come fossero strumenti. E le altre, fossero laureate o specializzate, più anziane o meno, tutte eseguivano come precisi automi, obbedienti.

Con il parto, riprendendo quanto mi disse un mio zio, comincia quel lungo e sotterraneo percorso attraverso il quale un uomo diventa un padre. È, a differenza di quello delle madri, un percorso infinito, dall’esito incerto e dai contorni sfumati, ma non meno profondo. Il primo passo per diventare uomini ce lo mostrano proprio queste donne, forse l’archetipo della femminilità stessa, con i loro gesti, il loro affetto, e ogni tanto, con le loro botte sardoniche.

Con gratitudine

Pulpen Ficktion

Ah, Vienna.
I viali alberati, vecchi Caffè pieni di specchi e vecchie signore, i palazzi imperiali, i giardini, il Danubio che scorre, la neve nei vicoli del centro.
E come dimenticare le Fiaker, le gloriose carrozze che portano entusiasti turisti per gli acciottolati del centro?
In realtà questi residuati dell’Impero ben poco hanno di romantico, ma sembrano dimenticarlo le migliaia che ci si gettano quotidianamente.
I cavalli, ronzini male in arnese con le orecchie perennemente inguainate in delle specie di preservativi bianchi di stoffa (ovviamente luridi), passano la maggior parte del tempo libero a fare le uniche due cose che possono fare: cercare di mordersi vicendevolmente e cacare.
I vetturini sono tutti dei brutti ceffi, la pelle bruciata dal sole, rovinata dal fumo e dall’alcol, con una bombetta dalla forma piacevole, ormai lisa e bisunta, calcata sui capelli. Le braccia sono quasi sempre ricoperte di tatuaggi, ma si noti che non sono né attualissimi tribali, né dragoni o carpe, e nemmeno ideogrammi: bensì quei fregi fatti a mano, nomi di donna, volti, cristi e madonne, che solo marinai e galeotti sfoggiano. Mancando il mare a Vienna…

Pare infatti che nei tardi anni ottanta siano cominciati ad arrivare i Russi, malavitosi agguerriti e preparati, che hanno in breve tempo estromesso le bande locali (tutta brava gente, artigiani senza esperienza di mondo) dalle loro attività più tradizionali: le donne, il gioco d’azzardo, un po’ di droga.
I disgraziati, per potersi permettere le merci che un tempo distribuivano, hanno usato tutta la loro frustrazione per potersi imporre sui vecchi vetturini, il cui lavoro offriva l’enorme vantaggio del pagamento, in nero, a cadenza giornaliera, da sputtanarsi la sera stessa.
Grande preparazione non serve, infatti, per biascicare due minchiate su Sisi a distratte famiglie di americani. E comunque, alla fine, il servizio loro più richiesto è di chiudere il guscio della Fiaker per poter consumare una trasgressivissima sveltina per le vie di Vienna. E se c’è una cosa in cui questi gangster in disarmo sono eccelsi, è tener la bocca chiusa e far finta di nulla.

bitter happy end


Primavera 1991.

Un bimbo di circa 4 anni sta guardando la televisione, i cartoni animati. La madre è indaffarata in cucina. Il padre è fuori, al lavoro, fa il poliziotto.

Improvvisamente il cartone scompare. Al suo posto, dopo un breve, fastidioso momento di trasmissione interrotta, compare un uomo a mezzo busto. È vestito con un’uniforme militare, il bimbo non sa riconoscere i gradi, ma sa cosa sia una divisa – e quell’uomo ne indossa una. Non ha un’espressione amichevole. Bastano due parole, ringhiate con voce cattiva, che la madre si precipita in soggiorno, uno straccio ancora in mano.

Il bimbo non riesce a capire esattamente cosa stia dicendo l’uomo, dev’essere qualcosa come “vi uccideremo tutti” o qualcosa del genere, non ha molto senso, ma sicuramente non è niente di buono. Strane sensazioni.

Molto più senso ha il singhiozzo sordo di sua madre, il suo improvviso pallore, e il suo pianto silenzioso e disperato.

Seguono scene convulse. Telefonate, papà è scomparso, non si sa dove sia, non si può sapere – cosa vuol dire papà è scomparso? – non si sa quando si saprà – cosa vuol dire? – il telefono staccato, uscire di fretta da casa – dove andiamo mamma? – gente in giro per la strada, poi ricordi confusi, case sconosciute, sballottato di qua e di là. In un attimo il bimbo impara che non sempre si possono fare domande, e che alcune non si possono nemmeno pensare.

 

Quel bimbo oggi è vivo, ed è un bravo, serio e promettente ricercatore sloveno, che svolge il suo dottorato in un istituto di ricerca internazionale. Parla molto bene l’inglese, il tedesco, il serbo-croato. Capisce l’italiano e altre lingue di matrice slava.

Suo padre è vivo, fa ancora il poliziotto, e nulla gli successe nei giorni immediatamente successivi alla dichiarazione d’indipendenza della Slovenia, anche se per quasi una settimana la sua famiglia niente seppe di lui. Lo stesso vale per sua madre, e per suo fratello più piccolo.

Non so cosa sia stato del generale dell’armata jugoslava che interruppe le trasmissioni, in fascia protetta – come diremmo oggi – per annunciare agli sloveni che in quel momento erano alla TV che sarebbero tutti stati uccisi, che non ci sarebbe stata pietà per loro, che avrebbero pagato caro il loro azzardo.

Alla Slovenia è andata di lusso, e ben lo sa il mio amico, e ben lo sapeva quando mi ha raccontato questo aneddoto, con uno strano sorriso sulla faccia, con il suo modo di affrontare le cose sempre un po’ scherzoso, distaccato e allegro. Ci sono stati ben altri orrori, pochi anni dopo, accanto a casa nostra: mentre noi ci fumavamo le prime sigarette, ci davamo i primi baci, pigliavamo le prime sbronze, i nostri coetanei venivano sbranati da mine e mortai, e alle nostre coetanee andava anche peggio, al di là dell’Adriatico.

Eppure è ugualmente terribile questo piccolo aneddoto, la ferocia di questa immagine, la cattiveria del gesto. Ed avere davanti il bimbo di allora, che veniva posto di fronte a tanto mentre io pregustavo la fine della seconda media, e che oggi me lo racconta con semplicità, cercando più che altro di capire e di farmi capire lo stato della madre, più che il suo, mi ha toccato.

Goodbye and good luck

Era da un pezzo che paventavo questo momento, e purtroppo è arrivato: Oscar Luigi Scalfaro se n’è andato.

Tante se ne sono dette, tante se ne diranno su di lui. Per me è stato un presidente della repubblica formidabile. Ed è stata anche una lezione di politica, anzi, una serie di lezioni.

Era un cattolico di destra/centro-destra, dunque politicamente avevamo ben poco a che spartire. Oggigiorno è impensabile: nei casi “migliori”, chi è dall’altro lato la pensa in modo diametralmente opposto, e dunque non c’è niente in comune; nei casi “peggiori”, una volta che hanno il culo sulla poltrona son tutti uguali e pensano solo a magnare. Però su un punto – in una democrazia normale – non si dovrebbe discutere: la Costituzione. Se si gioca insieme, le regole le si scelgono tutti insieme, in un circolo virtuoso in cui, confrontandosi e lavorando, si trovano i valori che ci accomunano, le cose in cui si crede, e in quella cornice si gioca. Questo vuol dire che chi appartiene ad un partito diverso è un avversario, persona degna, da rispettare, e non un nemico. Io con Scalfaro ho condiviso la passione per la Costituzione, che me lo ha fatto incontrare nel 2005, a Roma: una mattina memorabile.

Era il presidente dei comitati per la difesa della Costituzione durante il periodo in cui la maggioranza di centro-destra cercava pesantemente di modificare la Costituzione a favore dei poveri e dei derelitti. Per fortuna, gli andò buca, non grazie ai partiti di centro-sinistra, va detto: mi feci tutta la campagna, e si videro solo alla fine. Ma proprio alla fine. Per altro il primo ministro ai diessini non dispiaceva affatto. Comunque: Scalfaro quel giorno era di ottimo umore, affabile, scherzoso. Andando avanti con la riunione, approfittando della platea ristretta, raccontò i retroscena della crisi del primo governo Berlusconi, e di come gestì la cosa.

Berlusconi andò da lui e fece tre richieste. Non ricordo con esattezza quali fossero, una di sicura erano le elezioni anticipate. Anticipatissime, visto che erano passati solo sei mesi, e di andarci con il suo governo in carica. Scalfaro raccontò di come ebbe chiarissimo, in quei brevi secondi, che se avesse detto anche solo un sì, Berlusconi sarebbe riuscito a strapparglieli tutti e tre. L’Italia nel frattempo era in crisi nera, c’era grande sfiducia nelle istituzioni, c’era stata tangentopoli; come presidente della repubblica doveva cercare di scongiurare il ritorno alle urne in tutti i modi. Berlusconi incalzò: “Forse non mi hai sentito – le prime cariche dello stato per prassi si danno del Tu, come ci spiegò lo stesso Scalfaro vedendo i nostri occhi strabuzzati – ti ho fatto tre richieste…”. A questo punto Scalfaro lo interruppe e rispose:

“Alle tue tre richieste, rispondo tre no.”

E poi, confessò Scalfaro senza la minima vanteria, quasi vergognandosene, fece un bluff magistrale, interpretando con spregiudicatezza il suo ruolo (anche alla luce della sua conoscenza dello Stato, aggiungo io). Puntò sul fatto che Berlusconi non conoscesse tutte le prerogative e i poteri del capo dello stato, e gli fece credere di averne molti più di quanti ne avesse, e insieme gli fece una proposta che – a suo dire – mai nessun presidente avrebbe dovuto fare, ovvero che avrebbe proposto di formare un nuovo governo alla persona che Berlusconi gli avesse indicato (mai sentito parlare di Lamberto Dini?). Berlusconi, che invero ignorava gran parte delle norme della democrazia parlamentare italiana, alla fine accettò, come la Storia ci insegna, ma credo che, appena sceso dal colle, i suoi collaboratori gli abbiano fatto notare come fosse stato turlupinato – peraltro per la seconda volta (la prima era stato per Previti) – da Scalfaro. Da qui, malignamente, credo derivi gran parte dell’astio del centrodestra nei confronti del Nostro, checché ne dicano. E li capisco anche.

Ricordo a tal proposito una tribuna politica, in cui c’era Scalfaro e Sacconi. Quest’ultimo si lasciò un po’ troppo andare a fare il teatrino, e Scalfaro gli disse, con molta dolcezza, qualcosa come: “Maurizio, siamo stati compagni di partito [la DC N.B.] per tanti anni, non c’è bisogno di far finta di non conoscersi e di darsi del Lei”. Sacconi reagì da essere indegno qual è, rinfacciandogli la condanna a morte che Scalfaro firmò a guerra appena finita. Scalfaro accusò il colpo, tornò in un attimo quel vecchio che era, e stette zitto, visibilmente ferito. In quel momento, conoscendo la storia per averla sentita raccontare da Scalfaro stesso (a me personalmente, per altro), quasi mi commossi per la profonda pena che provai, e dalla rabbia e il disgusto per il colpo basso di Sacconi.

Scalfaro fece benedire, quando ne era presidente, la Camera dei Deputati, fatto che ritengo gravissimo. Eppure la stessa persona, anni e anni dopo, quando la CEI si espresse su un referendum (o qualcosa del genere), disse che i Vescovi sono persone eccellenti, ma che essendo fuori dalla Costituzione della Repubblica, farebbero bene ad occuparsi di religione, e non della politica italiana. Io credo che, diversamente da molti altri, si sia evoluto, nel tempo, come politico e come uomo. La differenza fra Scalfaro e Capezzone, ad esempio, è che quest’ultimo ha cambiato idea per avere più potere. E come lo stesso Scalfaro disse: “Ricredersi e cambiare pensiero è un atto di intelligenza e di dirittura morale. Se un ministro democristiano diventa comunista rifiutando posti di potere io lo rispetto. Ma chi cambia idee e acquista potere certamente è un opportunista”.

Nel 2007, in un periodo di grande sfiducia nella politica, un giorno mi imbattei in una legge che voleva modificare la Costituzione, cercando di aumentare il quorum necessario per modificare la Carta stessa (e dunque mettendola al sicuro da colpi di maggioranza, come fece il centrosinistra per il titolo V). Vado a vedere, e il primo firmatario era Scalfaro. Presi carta e penna, e gli scrissi, dicendo subito che ci separavano abissi politici, ma ringraziandolo per quella proposta di legge e per aver “salvato il paese da quella manica di farabutti che dissennatamente il popolo italiano” aveva eletto nel ’94, esprimendogli la mia gratitudine per la sua presenza in un desolante panorama politico, e il mio sconforto e disamore alla politica.

Dopo qualche settimana, un giorno, a pranzo con i miei amici-colleghi, mi telefonò mio padre.

“Giacomo, oggi sono venuti due questurini a cercarti a casa tua, non c’eri, hanno sentito la vicina di sopra che ha fatto chiamare me: gli ho dato il tuo cellulare, ti scoccia?”.

“Pà, ormai ha poca importanza se mi scoccia o meno, ma che volevano?”

“Mah, non saprei, dice che non era niente di brutto”

“Avranno ritrovato il cellulare di Paola, certo strano che ti vengano a cercare a casa…”

Un po’ interdetto racconto la cosa ai colleghi. Dopo pochi minuti una telefonata, un numero a me ignoto compatibile però con i numeri in zona via Zara.

Rispondo.

“Salve, è la Questura di Firenze, parlo con Giacomo Trombi?”

“Si”. Nel frattempo il mio collega M. chiedeva, a voce non troppo bassa, “Ma che cazzo hai combinato?”

“Lei tre settimane fa ha scritto una lettera al presidente Scalfaro” – a metà strada fra una domanda ed una affermazione

“….si…” (porca puttana – penso nel frattempo – me l’hanno intercettata)

“Il presidente Scalfaro avrebbe piacere di parlarle, e chiede se può telefonarle sul suo numero di telefono privato”

“….scusi?…”

“Il presidente Scalfaro ci ha chiesto di rintracciarla per chiederle se può chiamarla al suo cellulare” ripete divertita la signorina.

Balbetto che ovviamente mi farà un grande piacere, e da lì passa l’appetito e tutto il resto.

Più tardi, in ufficio, squilla nuovamente il cellulare: un numero di Roma.

Solita trafila:

“Pronto, è la segreteria del Presidente Scalfaro, è il signor Giacomo Trombi?”

“Si”

“Lei tre settimane fa ha scritto una lettera al presidente Scalfaro?”

“Si”

“Aspetti un attimo, le passo il Presidente”

 

 

 

“Sono Scàlfaro…”.

 

 

La lunga telefonata, che si svolse per parte mia nel torrido cesso – un posto di sicura privacy – in cima alla piccionaia di Agraria, in un torrido Agosto, fu semplicemente meravigliosa.

Per prima cosa si scusò per avermi fatto chiamare sul mio numero privato. Poi mi ringraziò più e più volte per la lettera, a suo dire troppo lusinghiera nei suoi confronti. Poi cominciò a raccontare. I primi anni della politica, l’episodio terribile della condanna a morte che dovette firmare – la legge era semplicemente, purtroppo quella, anche se poi fu amnistiato –  una grande e profonda crisi che ebbe nel primo dopoguerra, quando gli sembrò che tutto fosse ancora marcio, che nulla fosse cambiato, e durante il quale avesse pensato di mollare tutto. Poi ancora ringraziamenti, mi chiese che facevo. Mi salutò mandandomi un abbraccio. Qualche tempo dopo mi arrivò un suo libro sulla Costituzione, con la dedica scritta di suo pugno.

Non capii subito per quale motivo mi avesse telefonato. C’è chi dice per ringraziarmi, c’è chi dice perchè era un vecchio che non aveva un cazzo da fare e questurini a disposizione, c’è chi dice perchè era un signore, c’è chi dice perchè era un democristiano. Dopo non poco tempo ho capito, un po’ come François Pienaar in “Invictus”, dopo il primo incontro con Mandela, quando la sorella gli chiede “Allora, che voleva?” e lui, dopo qualche minuto, illuminato, capisce e risponde “Credo che voglia che vinciamo il campionato del mondo”. Allo stesso modo ho capito io, raccontando la cosa a gente semisconosciuta sulle gradinate di santambrogio una sera d’estate di qualche tempo dopo, per quale motivo Scalfaro mi abbia chiamato: per dirmi di non farmi prendere dallo sconforto, di non abbandonare le mie responsabilità, di non abbandonare la lotta. Perchè anche se sembra che tutto sia uno schifo, non possiamo permetterci il lusso di mollare tutto.

Potrete dire quello che volete su Scalfaro, e magari avete anche ragione. E magari aveva ragione anche chi, malignamente, ha detto che mi ha telefonato perchè si annoiava.

Resta il fatto che un ex presidente della repubblica si è preso la briga di telefonarmi per dirmi di non perdere la fiducia e di non darmi per vinto. Quando mi impartirete una lezione di vita di questo livello, vi ascolterò volentieri.

 

Grazie, presidente, e buona fortuna

Il giorno della memoria

Pochissimi anni fa i sovietici aprirono i cancelli di Auschwitz, spalancando l’abisso di fronte all’umanità.

L’umanità ha scelto la via più comoda, e da allora i Tedeschi sono i Cattivi, gli altri no, o comunque meno.

Ogni anno cerco di ricordare a me stesso che potevo essere io, uno di quegli aguzzini. Non importa quale ruolo ricoprissi: dall’ufficiale che eseguiva gli ordini, al prigioniero politico tedesco che faceva il kapo, alla casalinga che non sentiva l’odore agrodolce dei camini poco distanti, allo studente che prendeva a sassate la vetrina del giudeo. Sarei benissimo potuto essere uno degli aguzzini. Non raccontiamoci fole: il problema dei tedeschi, anzi, i due problemi dei tedeschi sono (i) che fanno le cose per bene e (ii) che hanno fiducia nell’autorità. Ed è per questo che alla fine gli Italiani, che pure di porcherie atroci ne hanno fatte, e che fascisti sono stati, ne sono usciti tutto sommato bene, a tarallucci e vino, come al solito.

L’orrore dei campi di concentramento nazisti non è qualcosa da contemplare dall’alto della nostra coscienza pulita, dal caldo dei nostri salotti, ripetendoci “io non lo avrei mai fatto”: è uno schifo nel quale dobbiamo immergerci, del quale non dobbiamo avere paura, che solo dobbiamo combattere.

A versare la lacrimuccia siamo tutti buoni, e non costa nulla.

Prima di tutti, vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht

 

Sfida all’OK Corral

Luogo: un incrocio viennese (Brückengasse/Gumperdorferstrasse/Stumpergasse).
Io: in auto.
Lui: a piedi.
Io: determinato a ricordarmi che in Austria i pedoni sulle strisce hanno la precedenza. E tanta paura di sbagliare.
Lui: elasticità mentale di un bue muschiato.
Io: sto superando un incrocio fatto in modo un po’ sbilenco.
Lui: sta davanti alle strisce.
Io: mi fermo per farlo passare e lo guardo.
Lui: non passa e mi guarda.
Io: lo guardo.
Lui: accenna appena al semaforo dei pedoni, che è rosso.
Io: guardo il semaforo dei pedoni.
Lui: resta immobile.
Io: capisco e indico il semaforo dei pedoni, che continua ad essere rosso, come a dire “Ho capito, ora vado”.
Lui: sta e mi guarda come a dire “Sarà il caso”.
Io: rido e me ne vado.
Lui: resta nella ferma convinzione d’essere nel Giusto.

Capitani coraggiosi

21 anni fa, di questo periodo, moriva, dopo che mia madre l’aveva aiutato a farsi il segno della croce e dunque, in virtù di questo, serenamente, mio nonno Vincenzo. Oggi avrebbe 106 anni.
Doveva in realtà chiamarsi Guido, ma il parente o chi per lui che andò all’anagrafe si dimenticò il nome, e pensò che Vincenzo andasse benissimo.
Era l’ultimo figlio di una famiglia palermitana di capitani di marina.
Da piccolo, quando stava per cominciare la prima guerra mondiale, andava al porto a vedere i bastimenti che arrivavano, e poi andava a riferire a suo nonno, quasi cieco da tempo, che si faceva ripetere la stazza delle navi alla fonda, ripetendo incredulo cifre che, per un uomo abituato alle vele e non al vapore, non potevano essere comprese.
Mio nonno, mi concedo una licenza, recitava con serietà la sua parte, nel grande palcoscenico della vita. Era meridionale, e per questo si sentiva in dovere di essere ferocemente geloso e attaccare – letteralmente – al muro chiunque indugiasse a suo avviso un po’ troppo sulle forme di mia nonna. Era siciliano, e dunque piuttosto maschilista. Era un marinaio, e aveva amiche in ogni porto. Era capitano di marina, e dunque monarchico. Era anche uomo all’antica, che credeva nella dignità dell’uomo.
Passò il tempo, durante il secondo conflitto mondiale, ad incrociare nel mar mediterraneo. Mi raccontava, con la voce austera gelida nel suo disprezzo, di come gli inglesi passassero con la mitragliatrice i naufraghi in balia delle onde, a dispetto di tutte le leggi del mare, e di come una volta, interrogando in merito a questo un capitano anglosassone prigioniero, per l’appunto raccolto in mare, si sentì rispondere “È la guerra”. Mi raccontava di Cipro, di Creta, di Gibilterra; di come una volta avesse sentito, nel silenzio assoluto, i denti di un sottoposto che battevano forte dal terrore, mentre in una notte buia aspettavano il bombardamento, in mezzo al mare.

Che io sappia non ha mai fatto naufragio, l’unica volta in cui lo avrebbe fatto fu chiamato appena in tempo, mentre saliva la passerella di una nave che sarebbe stata colata a picco subito fuori dal porto di Palermo (nessun superstite), perché sua madre era morta. Una sorta di salvataggio in extremis, verrebbe da pensare.

Non so cosa farei io se fossi il capitano di una nave grande come un comune e tale nave stesse affondando. Non so se avrei il coraggio di restare a bordo a coordinare i soccorsi col rischio di crepare. Non so, soprattutto, se avrei il coraggio di far tutto questo dopo aver fatto un’immane cazzata, per altro concordata con la compagnia.

Non so nemmeno cosa avrebbe fatto mio nonno. Però ho alcune convinzioni. Non credo che mio nonno sarebbe passato così vicino ad un’isola. Credo però che probabilmente nemmeno la compagnia gli avrebbe chiesto di farlo per rendere felici i menefreghisti a bordo, che consumano paesaggi come fossero popcorn, e li vogliono vedere vicini. Non credo che mio nonno avrebbe lasciato la nave, la sua nave.

Oggi il senso dell’onore, della dignità di un uomo, il senso del dovere, sono tutte cose che, in Italia, sono considerate da sfigati, da perdenti, da piglianculo.

Mio nonno, con tutti i difetti che poteva avere, era un uomo che credeva nella dignità dell’uomo e nel suo onore. Per questo era capace di vegliare, già vecchio, suo nipote in vece di sua figlia stremata dalla stanchezza, e la mattina esser di nuovo pronto a farlo, e a farlo ancora, senza mostrare il minimo segno di stanchezza, come fosse la cosa più normale del mondo. Perchè, per lui, in effetti era la cosa più normale del mondo che un uomo si comportasse così.

C’è tanta voglia di eroi, in Italia, basti guardare il buon De Falco e come sia stato incensato.

Cosa lascia perplessi è  che l’italiano di oggi desidera ardentemente che l’eroe ci sia, ma che non sia lui stesso: d’altra parte perché proprio lui?

l’evoluzione dei padroni

garzoni

aspiranti garzoni edili in Triesterstraße

chi mi vuole per garzone
che lo voglio per padrone!

Comincia così la fiaba “I tre orfani” raccolta da Italo Calvino nel suo – splendido – “Fiabe Italiane”, che mi sta accompagnando da quando ero piccolo, e che mi sono portato a Vienna. Mi ha sempre colpito questa specie di filastrocca con cui, nella miseria nera, uno ad uno i tre orfani si immettono nel mercato del lavoro (come si dice oggi). Soprattutto le condizioni contrattuali – l’unica richiesta è: lavorare. Chiunque soddisfi questa richiesta basilare, semplice, ineccepibile, corrisponde all’idea di datore di lavoro, anzi di padrone, che il giovane desidera: non v’è menzione circa il salario, le garanzie, le ferie pagate, la maternità, la malattia. Non mi sembra un caso che la fiaba, per altro, provenga da una terra dura, aspra e bella come la Calabria.

Ogni mattina, per andare al “mio” castello (come dice Peppe “il castello di papà”) passo per la Triestestraße (dimenticano facilmente, qui), che mi conduce fuori Vienna. Lungo questo stradone sta un Obi, uno di questi grandi magazzini per il bricolage, ovvero per chi ha delle pruderie da homo faber, ma non la stoffa (tipo me). Davanti ad esso, ogni mattina che dio mette in terra, qualunque sia la stagione, la temperatura, lo stato del vento e l’umidità dell’aria, si affollano i braccianti.

Sono dai 4/5 fino a 20, ad occhio, saltellano da una gamba all’altra, si danno grandi pacche sulle spalle, si stringono nelle spalle, si alitano nelle mani. Ridono, scherzano, stanno appoggiati ad un lampione, fanno a botte, si gridano dietro, si guardano minacciosi.

Ma fondamentalmente aspettano che qualcuno li passi a prendere – ovvero dia loro una giornata di lavoro.

Condizioni contrattuali, sicurezza, sindacati, malattia, maternità: tutto questo non esiste. La capacità contrattuale di questi disgraziati consiste nel poter dire: “No grazie, per oggi resto a gelare sul marciapiede”.

Volendo continuare a metterla sul piano del “Va avanti chi ce la fa”, preoccupandosi più di non dare privilegi a chi non li merita, che di aiutare chi è più debole e più nel bisogno, non facciamo – non faremo – altro che aumentare la massa degli sconfitti, di coloro che non ce l’hanno fatta, dei deboli. E quando i deboli e gli sconfitti diventano molti, molti di più dei vincitori, dei forti e dei furbi, i ruoli si scambiano velocemente.

Per fortuna lo stato austriaco non è stato a guardare. Cosa ha fatto? Un rapido blitz con un paio di furgoni di poliziotti e due volanti – una retata vera e propria – e un bel controllo documenti, fatto lì sulla strada, ai disgraziati ad aspettare. Un gesto di elegante impotenza, come quando un bimbo grande ti fa un dispetto, e tu per la rabbia meni il primo più piccolo di te che ti si para davanti.

Macro-Ragioni Climatiche (sulla rigidità di taluni popoli)

Con la mia dolce metà (meta?) parliamo parecchio. Un cameriere l’altro giorno me l’ha pure chiesto:
“scusa ti posso fare una domanda personale?”
“vai”
“tu e tua moglie convivete, no? – annuisco – da quanto?”
“ma senti, convivere da sei anni, insieme da tredici”
“ecco ma com’è che c’avete ancora tutte ‘ste cose da dirvi?”

Ma non sbrodoliamoci addosso: volevo dire che si finisce spesso per ragionare sulla rigidità austriaca, io e la mia bella.

Lo scorso inverno, mentre camminavamo per buie strade periferiche di Vienna, nevicava, il passeggino procedeva a stento, Peppe già cominciava ad incazzarsi di brutto, ho avuto un piccolo lampo.
Qua in Austria, d’inverno, non si scherza. O meglio, nella storia non s’é mai scherzato molto.
Qua d’inverno si moriva di freddo, ma per davvero. Da mangiare c’era poco (neve dappertutto), e le cose andavano pianificate ammodino: non è che uno dice “esco” e va. Qua se facevi il furbo e rimanevi a giro per un qualsiasi motivo, semplicemente ti trovavano il mattino dopo come un diacciòlo. E comunque tipo in Finlandia è ancora così: se ti si ferma la macchina di notte in inverno, o hai un telefono, o hai chi ti accompagna con una seconda macchina, o buona notte ai suonatori.
Non è come da noi, che si fa sempre a tempo, che si può sempre rimediare, che se oggi piove, domani sarà bel tempo, che se hai dimenticato il giubbotto, patirai un po’ fresco, che se non hai portato i guantini della belva, pazienza, che se Berlusconi s’è mangiato tutto, poi viene Monty. Da noi finisce sempre a tarallucci e vino, alla volemosebbeneannamoavanti, alla “che c’hai’na sigaretta? prestame cento lire” (cit. Remo Remotti). Perché è vero, non si ha mai la percezione dell’ineluttabilità, del non ritorno, del definitivo.

E così, ogni sprazzo di sole son barbecue a palla, sono parchi gremiti di carrozzine, sono poppe al vento (che Dio le (ri)benedica), gite fuori porta.

Un sabato mattina c’era una bellissima stagione: sole, caldo, un incanto. “Vabbè, dai, usciamo dopo pranzo, tanto è estate”.
Nero, vento, pioggia e freddo. Pareva autunno inoltrato, nel volgere di un paio d’ore.

Un inverno di diversi anni fa, una la mia amica M., della Stiria, una regione a sud ovest di Vienna, si trovava alla stazione di Palermo. Sente parlare nel suo dialetto, si volta, e non vede nessuno. Poi abbassa lo sguardo e vede un paio di barboni, sdraiati in mezzo ai cartoni, che chiacchierano.

“Ma voi siete austriaci! Siete della Stiria!” esclama M. felice ed incredula

“Sì” rispondono loro

“E che ci fate qui a Palermo?”

“Semplice: d’estate giriamo per l’Austria, o se ci va da qualche altra parte, chè si sta freschi. Ma d’inverno veniamo giù, che si sta al calduccio e non si muore di freddo!”.

La storia lo ha insegnato loro: qua se non eri preciso, ordinato, metodico, semplicemente tiravi le cuoia. Qui se sbagliavi morivi, se ti fermavi eri perduto.
Ora ovviamente non è più così, per niente – a parte i barboni, ora che ci penso, e chissà, magari anche altri – ma capisco lo strutturarsi, nel tempo, di una cultura dura, spietata, pratica.

E se per generazioni la natura ti tratta con poca gentilezza, beh, si può capire un po’ di ruvidità.