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Cina, diarreee e Renzi

le tre golePrima di andare in Cina, nell’estate del 2006, con Paola andammo a parlare con un amico di amici che ci era già stato: visto che il viaggio non era stato preparato praticamente in alcun dettaglio, ci parve una buona idea. Soprattutto, credo, parve una buona idea a chi ci stava attorno: noi, inebriati dalla cosa, non è che ci si fosse posti grandi problemi e s’era deciso e organizzato il tutto un paio di settimane prima della partenza.

Lui, un dottore che si era specializzato in agopuntura e che era stato diverse volte nel Regno di Mezzo, ci parlò abbastanza a lungo di quello stato e di quel popolo che tanto lo affascinavano. Concluse poi con alcuni avvertimenti, e con un monito abbastanza chiaro: “Considerate che in Cina non è facile: vi ci vorrà una mattinata intera solo per comprare un biglietto del treno”.

Dentro di me, forte della mia presunzione e del mio provincialismo, pensavo: “Ti ci sarà voluta a te una mattinata intera: io son stato boy scout, ho vissuto in Albania, ho dormito per terra fuori della stazione di Atene e al porto di Igoumenitsa, mi son fatto 60km di sterrata nel cassone di un pickup reggendomi ad una corda nelle alpi dinariche, mi sono fatto Antalya-Villapiana Scalo in 4 giorni da solo usando tutti i mezzi di trasporto conosciuti: figurati se mi ci vorrà una mattinata, a me”.

Puntualmente, a Pechino, mi ci volle un’intera mattinata per fare un biglietto del treno, ed ero già in Cina da quasi una settimana.

La mia impreparazione mi costò alla fine solo qualche chilo, un paio di diarree e tanto tempo perso. Che poi il tempo perso non fu: viaggiammo con lentezza, insieme a qualche altra decina di migliaia di cinesi, con i loro ritmi e – quasi, devo ammetterlo – con le loro scomodità, vedendo pochi occidentali e tanta Cina: perso non fu, anzi.

La mia paura è che Renzi, che si sente molto più ganzo di quanto mi sentissi io, che è stato boy scout, che ha fatto le scarpe a D’Alema e compagnia, che ha fatto il mestiere più bello del mondo e il secondo mestiere più bello del mondo, che parla di dolore e di sogni ma che, fondamentalmente, sa-una-sega-lui, dall’avventura romana che sta percorrendo a passo di marcia magari ne uscirà con gli stessi chili addosso e senza una diarrea che sia una: quel che mi preoccupa è come ne usciremo noi.

La morte di Bagheera

Tempo fa sono stato, con mio grandissimo diletto, Akela in un branco di lupetti. Quando me ne andai via, come altri Akela prima di me, raccontai il brano del libro della Giungla chiamato “la morte di Akela”, che rende ancor più straziante il già di per se doloroso momento, e che fa parte de “I cani rossi”. Avevo però sempre considerato ingiusto che Bagheera, che generalmente è la responsabile femminile del branco, non avesse la dignità di un brano di Kipling per salutare il proprio branco. Ancor più mi sembrava ingiusto per la mia Bagheera, senza la quale non avrei durato una sola riunione. Decisi allora, senza grandi pretese letterarie, di scrivere un racconto sulla falsa riga di quelli di Kipling che raccontasse la morte di Bagheera, così che anche lei lo potesse leggere una volta che avesse lasciato il branco. Eccolo qua, per chiunque ne voglia far uso nel proprio branco.


una pantera

Era un tiepido pomeriggio d’autunno, scure nuvole si affollavano in cielo senza sosta, spinte da venti tropicali. Erano passate molte stagioni da quando Mowgli cacciava con il Branco di Seeonee, e in quel tardo pomeriggio stava gironzolando, come spesso gli capitava gli fare, nei pressi di un immenso palazzo di un qualche re dell’India che particolarmente gli piaceva, non lontano dalla Giungla. Stava passando, senza far rumore, lungo il muro di un magazzino esterno, quando da una delle alte finestre udì una voce. Senza far caso alla voce, né alla lingua, Mowgli sentì qualcosa come: “È proprio vero quel che dissi ad Akela, che nessuno può sperare di guidare per sempre il branco, e ciò vale anche per un cacciatore senza branco come me…”. Subito gli si drizzarono i capelli dietro la nuca, perché si rese conto che quella voce, seppure molto invecchiata dal tempo, la conosceva bene, e parlava una lingua che Mowgli non parlava più molto spesso.

“Bagheera!” gridò sussurrando Mowgli con le mani attorno alla bocca “Bagheera sono qui fuori!”

“Sei proprio tu, fratellino?” Rispose la voce dal magazzino.

“Per il toro che mi ha riscattato, certo che sono io!” disse Mowgli quasi offeso.

“Stai attento fratellino, qua attorno è pieno di uomini armati, dentro e fuori il muro che ci separa!” disse Bagheera “Mi ha fatto piacere sentire ancora la tua voce, l’ultima, ora va’, non è bene che ti trovino qui!”.

Mowgli credette di non aver sentito bene: “Che dici Bagheera, esci e andiamocene un po’ a caccia assieme! Ti aspetto qui.”

“No fratellino, è finito il tempo delle caccie assieme, mi hanno catturato con il fiore rosso, hanno bruciato mezza giungla per riuscire a circondarmi, mi hanno battuto e rinchiuso in una gabbia, e le botte mi hanno levato le forze per uscire. Vattene fratellino, davvero non sono un bello spettacolo!”.

Mowgli non disse niente, ma i suoi pensieri correvano come la Waingunga sotto le rocce del Piccolo Popolo.

“Sto arrivando” disse, e cominciò a studiare la situazione,

Non fu difficile, una volta calata la sera, strisciare lungo le ombre, e dopo una buona attesa, trovò il momento propizio, mentre due guardie chiacchieravano sonnolente davanti al portone del magazzino che avevano lasciato aperto. Scivolò dentro senza fare rumore, e una volta al sicuro, imitò il verso del gatto di città, così se avesse fatto rumore non avrebbe destato sospetti. Cercò il luogo in cui doveva essere la pantera nera, finché ne sentì il respiro affannato dietro alcune casse. Allora, sapendo quanto avrebbe sofferto Bagheera per essere visto in quello stato, passò oltre le casse con lo sguardo basso, evitando di guardare la pantera. Esaminò scrupolosamente la serratura della poderosa gabbia, prese una mazza di quelle per montare i binari e la avvolse in una pezza, poi disse :

“Bagheera, lancia un grido di caccia!” e mentre la pantera, con il poco fiato che aveva, faceva raggelare le guardie fuori del magazzino con il suo grido, Mowgli con un sol colpo tranciava via la serratura. Poi entrò nella gabbia e con infinita dolcezza, come già aveva fatto un’altra volta, sollevò il corpo di Bagheera, segnato dalle bastonate e dal tempo. Uscì dal magazzino sempre nell’ombra, mentre le guardie cercavano di riaddormentarsi, e corse via, verso la Giungla.

Quando ebbe corso per una buona mezz’ora e si sentiva al sicuro, Mowgli adagiò la pantera sull’erba, e Bagheera disse: “Guardami fratellino, non mi resta molto da vivere, e vorrei ancora una volta che tu mi guardassi, anche se non so quanto potrò sopportare i tuoi occhi nei miei” e Mowgli, con le lacrime agli occhi, guardò. “Sono molte le stagioni che ci separano da un piccolo ranocchio al chiaro di luna, ma vedo con piacere che questo tempo ti ha reso forte e saggio, fratellino. Già da molto tempo non ho più niente da insegnarti, e ora che nuovamente una serratura rotta mi ha liberato, vedo che hai voluto pagare un debito, un debito che io credevo pagato, un toro ucciso nella giungla. Bene fratellino, davvero ora tutti i debiti sono stati pagati, va’ e torna alla tua tana. E ricordati che Bagheera ti ha voluto bene.” Mowgli abbracciò la pantera, si voltò e andò via, senza mai girarsi indietro. Quando il sole cominciava a spuntare, sentì il canto della morte che ogni cacciatore deve cantare prima di morire, e che Bagheera, adesso, cantava.

la leggenda del progresso – il pozzo in Africa

leggenda del progresso - il pozzo in Africa

leggenda del progresso – il pozzo in Africa

Diversi anni fa mi fu raccontato un aneddoto. A dire il vero non ricordo se mi fu raccontato o l’ho letto, nè se nella storia i fatti si svolgessero come io li ricordo, nè tantomeno se la vicenda sia vera. Tuttavia la storia – che é in realtà  una parabola – mi é sempre piaciuta molto.
Anni e anni fa una ONG aveva iniziato un progetto di cooperazione in un villaggio dell’Africa Subsahariana. I giovani cooperanti, pieni di voglia di fare e carichi di buone intenzioni, furono subito molto impressionati da un aspetto della vita del villaggio: essendo gli abitanti privi di un pozzo, ogni giorno le donne, dalle bimbe fino alle adulte, si facevano due ore di cammino per andare a prendere l’acqua fino al pozzo, e due e mezzo al ritorno, piegate sotto il carico delle gerle piene d’acqua sul capo.
Questa schiavitù impressionò fortemente i giovani cooperanti.
Periodicamente, assieme a cooperanti di altre ONG, antichi colonialisti, squali ed affaristi, diplomatici e gente in fuga, i giovani cooperanti si trovavano nella principale città  della zona, per godere ogni tanto delle comodità  e dei piaceri che distinguono un gentiluomo occidentale da un selvaggio.
Una di queste volte conobbero i dirigenti locali di una grande e famosa compagnia petrolifera, che risparmiava ai selvaggi del posto la fatica di estrarre il prezioso oro nero che gonfiava il loro sottosuolo, non lontano dal villaggio. Il più ardito di loro sottopose diplomaticamente la situazione del villaggio ai dirigenti della compagnia petrolifera, facendo notare come – con la loro tecnologia e il loro personale – sarebbe loro occorso pochissimo tempo per aprire un bel pozzo nel mezzo del villaggio.
I dirigenti, per qualche strana alchimia, accettarono, e prestarono gratuitamente parte del personale ed una trivella al nobile scopo.
In poco tempo il pozzo fu aperto, e il giogo della gerla fu tolto dal capo delle donne.
Dopo un mese, un mattino, gli increduli cooperanti trovarono il pozzo completamente ostruito, tanto che da non poter più essere utilizzato.

Ci volle tempo e fatica per trovare i colpevoli.
O meglio, le colpevoli.
Furono infatti le stesse donne a distruggere il pozzo.

Dopo molto altro tempo, i giovani cooperanti capirono anche le ragioni che stavano dietro al folle gesto.
Le quattro ore e mezzo-cinque che ogni giorno le donne trascorrevano nella lunga e faticosa operazione dell’acqua, erano per loro preziose. Durante quel tempo, infatti, erano libere, non sottoposte alla rigida autorità  maschile, lontane dalla fatica della gestione della casa, dei figli, dei campi.
Durante quella lunga strada potevano discorrere, scherzare, spettegolare, cantare. Le donne insegnavano alle bimbe come si diventa donne. Era un momento loro.
Per questo avevano distrutto il pozzo, perché della presunta nuova libertà  non se ne potevano far niente.
Il nocciolo credo sia che, come non si può esportare la democrazia, così non si possa imporre il progresso: una cosa é giungere ad una conquista in cinque secoli, sudandosela ogni giorno per cinquecento anni, un conto é trovarsi la conquista regalata, in poche ore, senza sforzo, senza un percorso.
Dispiace per i poveri giovani cooperanti, animati dalle migliori intenzioni, ma fascisti nell’intimo: il fatto che una conquista sia giusta, non significa poi molto nel mondo reale, se non si aiuta la gente ad arrivarci. Anzi, se il progresso lo si impone, di fatto ci si comporta da fave.
Mi piacerebbe che ci pensassero coloro che reputano che noi occidentali siamo arrivati, e gli altri ancora corrono.

palcoscenico

alfredo puccianti

alfredo puccianti

Nell’autunno 1990, quando avevo 12 anni, assecondando un mio desiderio e la mia indole, mia madre mi iscrisse a “teatro”, come veniva comunemente chiamata l’animazione teatrale per ragazzi che Alfredo Puccianti organizzava ogni anno nel comune di Fiesole.
Ricordo che passai gran parte del pomeriggio a ballare la Zorba (quando sono trionfante, non riesco a fare a meno di ballare: cambiano solo i pezzi che accompagnano la danza, se così vogliamo chiamare il mio muoversi scomposto) e a improvvisare pezzi di teatro in soggiorno, entusiasta ed estatico.
Alfredo Puccianti era – perché purtroppo é morto stroncato dal suo amore viscerale per i cicchini – un personaggio eclettico e a suo modo geniale.
Aveva un carattere eclettico, nel senso che andava naturalmente dall’avere quello che in genere viene definito “un carattere di merda” ad essere persona di grande capacità  di comprensione e sensibilità .
Il cinema era la sua vita, la sua passione – direi per quello che l’ho conosciuto, e questo si riverberava nel suo farci far teatro: scene epiche e corali, recitazione assolutamente non teatrale – fin dove possibile, ovviamente.
Lavorava con i ragazzi, dalla prima media in su…man mano che diventavano grandi, passavano al gruppo dei grandi, con cui faceva altri spettacoli e che lo aiutavano nel fare quelli con i più piccoli (eravamo una caterva).
Ho sempre amato questo modo di far teatro: recitazione più “verista”, nel senso che mancava l’enfasi e l’accentuazione tipica del teatro (a favore di una recitazione di tipo cinematografico, direi da profano), e nello stesso tempo restava quella componente fondamentale, per me, che era il pubblico.

Già , il pubblico.

Ricordo perfettamente, nonostante abbia lasciato Alfredo nel 1995, la sensazione dello spettacolo, anzi, le sensazioni.
Ricordo appena prima dell’entrata in scena, la tensione tutta erotica di poco prima che cominciasse la mia parte: ogni nervo teso, il buio, il brusio quasi indistinguibile dietro le quinte, gli scambi di effusioni e auguri fra gli attori, la gente che si cambiava freneticamente, chi ripassava la parte, e poi via, dentro il ventro buio del palco.
E là , nel buio, davanti a te stava la bestia, che respirava con un solo respiro, in attesa: il pubblico.
E poi la luce, abbagliante, calda, piena di polvere in sospensione, e dietro l’animale che ti guardava.
Un istante di panico – sempre. Se non ricordi la prima parola non partirai mai, non ti stai ricordando la prima parola, la prima parola é il bandolo, afferralo, e uscirai dal labirinto, prendilo e non mollarlo più, seguirlo sarà  facile, a quel punto potrai anche fare strade diverse e uscirai lo stesso, ma prendilo, prendilo. E davanti, invisibile dietro le luci, l’animale immenso e respira, non lo vedi ma lo senti.
E poi via, afferri il capo del filo, e il filo scompare, e a quel punto sei padrone di te stesso e dell’animale davanti a te, decidi tu come uscire dal labirinto. Sì, sono un egocentrico presuntuoso. Mentre recitavo, appena dopo l’incipit, sentivo di averlo in pugno, quell’animale, di portarlo dove volevo io, di dominarlo, di farlo sognare e vibrare. Magari non é mai stato vero, magari solo a volte, magari sì: é una cosa che non mi interessa affatto.
Era una sensazione inebriante.
Poi si tornava, abbracci dietro le quinte, baci, pacche, carezze: gli attori hanno un’intimità , nel buio dietro le quinte, che rasenta quella degli amanti.
Alfredo mi ha conquistato da subito, dalla prima volta che mi chiese – come esercizio, come faceva fare a tutti – di recitare un verso. Cominciava pressappoco così: “ah che meraviglia questo vino caldo”. Io usai la pronuncia dell’integrazione, il fiorentino che avevo imparato per non sentirmi diverso e, soprattutto, per non farmi prendere in giro.
Alfredo mi interruppe subito: “No, no no. Giacomo, hai la fortuna di saper parlare italiano: quando reciti, parla come sai parlare, non come parlano gli altri”. In un attimo mi restituì la dignità  del mio parlare, che per anni avevo dovuto celare ed adattare per via dell’emarginazione – non marcatissima per carità  – che ne derivava.
Mi dette quasi sempre parti bellissime, almeno per me: fui “Doc Holliday” nel “Wild West Show”, personaggio mitico, con una sigaretta spenta in bocca (rubata alla Manu e portata in bocca in barba al divieto assoluto di farlo da parte della Manu stessa), malato, con una doppietta bellissima; ero anche il prete della prima scena, ricordo ancora, parola per parola, la mia parte, nonostante siano passati ventanni. Fui “Al Capone” in “Al e Charlie in: America”, che recitai in un palermitano decente dopo essere andato a scuola di dizione da mia nonna, che pazientemente e gaiamente mi recitò tutta la mia parte, sottolineando l’accento e la pronuncia corretta per farlo in un siciliano credibile. Fui una ragazza con l’accento francese – la parte più difficile che ho dovuto mai fare – in “Zuppa d’anatra”, spettacolo visionario al limite del comprensibile, in cui vestivo un vestito da donna strettissimo. però in quello spettacolo potevo gustarmi le forme di un’attrice che mi piaceva molto e che – per forza di cose – doveva cambiarsi tutte le volte davanti a me, per cui il supplizio del vestito lo accettavo volentieri. Fui l’agente segreto che rappresentava tutte le controrivoluzioni nello spettacolo “Que viva mexico”.
Questo scritto lo dedico ad Alfredo, con cui litigai e mi lasciai male, al quale ho voluto bene e cui devo ricordi splendidi, e che mi ha insegnato a recitare.

Ode al Tetris!

tetris!

tetris!

25 anni fa un ricercatore sovietico dell’accademia delle Scienze moscovita inventa Тетрис, un videogame.

Ho passato grandi pomeriggi a disfare la tastiera per battere il record di mia cugina A. (14mila e rotti), che una volta riuscii a sforare.
Era come danzare, non guardavo quasi lo schermo -figuriamoci i tasti, il 7, l’8 e il 9- era solo muoversi a tempo. Feci oltre 20 mila. Mai più fatto niente del genere.

Ecco, a mio avviso Tetris é forse l’unico -e comunque il primo- vero videogame.
Nel senso: tutti i videogame, in pratica, riproducono la realtà  nel mondo virtuale, e in esso ti fanno giocare.

Tetris no.
Non é un aspetto della realtà  umana (guerra, spionaggio, strategia), non é un gioco da tavolo, non é un simulatore.
Non esiste una realtà  in cui cadono pezzi di roba dal cielo, e una volta che formano una linea, scompaiono nel nulla.

Chissà  dove ci avrebbe potuto portare una scienza informatica così.

Purtroppo, come é stato per la matematica sovietica, é andato praticamente tutto perso.
E vabbé.

Giacomo musicista – underground!

procofano - chiave a brugola

procofano – chiave a brugola

M. e M. mi erano vicini di casa, relativamente al luogo in cui vivevamo, ovviamente. Questo vuol dire che c’erano solo 1.7 km a piedi fra casa mia e casa loro, passando per vigneti, campi e strade sterrate.
Si suonava in un appartamento sfitto di una colonica, accanto a casa di uno dei due M., dove non si disturbava nessuno, piuttosto fatiscente, ma perfettamente atto allo scopo. L’altro M. viveva poco più a valle.
Uno é batterista, l’altro bassista. Entrambi sono a modo loro dei geni della musica.
Possiedono -spero ancora, visto che li vedo pochissimo e non suono con loro da anni ed anni- un tocco blues-jazz-funk innato che ha dell’incredibile.
M. bassista suonava anche la chitarra, e mi insegnava pazientemente, o meglio cercava, il tocco funk, visto che io ero piuttosto zappatore, sul ponte.
Ricordo ancora l’ebbrezza che provai la prima volta che mi fu insegnato il misteriosissimo ed affascinante “power chord”, una minchiata sproporzionata che il grunge utilizzava a man bassa e che io volevo a tutti i costi imparare.
Ricordo l’emozione violenta del suono distorto, portato al massimo consentito dal Marshall 40W valvolare che l’incidente di cui a questo post mi aveva permesso di comprare (d’altra parte avevo ragione io, e fra gesso e convalescenza mi presi una sommetta risibile, ma sufficiente per ampli e chitarra). Era una proto-sensazione di onnipotenza, che si concretizzò mesi dopo quando, nella stanza completamente vuota dei miei genitori (si dovevano far dei lavori e quindi era stato levato tutto), la più grande della casa, saggiai i limiti del 40W…Mia cugina A., che viveva al secondo piano, esattamente sopra quella stanza, mi disse che tremavano le cose sulla sua scrivania. Era come star dentro una cassa di una chitarra a volume incredibile, delirante. Un puro godimento.
Con M. ed M., per tornare al tema del post, si suonava la sera, o a partire dal tardo pomeriggio, e si andava avanti parecchio, facendo di tutto, suonando di tutto. A volte riuscivo a seguirli nelle loro folli improvvisazioni, a volte semplicemente mi fermavo e ascoltavo.
Fu un periodo breve ma molto utile, e ancora ho nostalgia del loro suonare.
Con loro ci fu la prima esibizione pubblica, al teatro delle Caldine, con altri scalcinatissimi gruppetti giovanili. La nostra formazione si chiamava “Procofano” e faceva punk-rock-funk, direi a occhio e croce. Il nostro cavallo di battaglia era la canzone “Chiave a brugola”, con un giro merdosissimo, ma ricco di improvvisazioni e variazioni dei due M.. Io, ovviamente, proseguivo imperterrito col giro, che altro non sapevo fare.

un incrocio fra sbirulino e bogart

Agim nelle paludi

Agim nelle paludi

Questo tizio é Agim, uno degli albanesi più simpatici che abbia mai conosciuto.

Lavorava alla stazione sperimentale (agricola) di una cittadina del centro dell’Albania, un luogo in cui, giorno dopo giorno, mi invitavano a tornare l’indomani, ché non si poteva fare, che non c’era tempo, non c’erano persone….
Adesso credo si sia trasferito a Tirana.

Cominciava al mattino, con un generoso raki, poi credo proseguisse sullo stesso tenore.

Faceva battute molto spesso, oltre a far ridere così, semplicemente per com’é fatto.

Fumava sigarette fini, le greche Karella, che offriva ogniqualvolta se ne accendeva una.

Lo passai a trovare, di corsa, prima di andar via dall’Albania, e mi offrì subito una bella grappa e un cicchino.

L’ho risentito nel Settembre 2003 per telefono, sul marciapiede davanti casa del mio amico G. Mi disse che mi aveva visto in televisione, poi uno strano discorso sulla luce che non capii.

Pensai, come al solito, ad una delle minchiate di Agim, tanto per dire qualcosa.
E invece mi aveva visto davvero, la Reuter -mi ero dimenticato- mi aveva intervistato fuori della stazione Termini, il mattino dopo il black out della prima Notte Bianca di Roma, ed evidentemente mi avevano spedito su chissà  quale satellite….e cose incredibile, mi aveva visto Agim.

L’ultima volta che sono tornato, non l’ho cercato, ho preferito ricordarmelo così!

La gola della sabbia che canta

il deserto della gola della sabbia che canta

il deserto della gola della sabbia che canta

In Cina, e più in particolare nella Mongolia Interiore, c’é un deserto di riporto. Dicono sia parte del deserto del Gobi, ma non ho trovato grande chiarezza in merito, e soprattutto, la zona é separata dal Gobi da zone verdi e abitate.
Immaginate di prendere un pulmino scassato, pieno di cinesi che guardano uno dei loro film preferiti -un film di cappa e spada con spade che paiono neon, botte da orbi, duelli che durano ore e recitazione iper-minimalista- in un divx mandato su un televisore vecchio di vent’anni inchiodato al soffito del mezzo;
Immaginate di far un viaggio di un paio d’ore con il vicino davanti che passa il tempo girato contro al senso di marcia, appoggiato allo schienale, per guardarvi con maggiore comodità .
Lasciati i camini di un un’enorme centrale nucleare vi immergete in campi verdissimi, pieni di grano.
Lentamente la vegetazione si fa più giallastra, più stentata. Cambiate pulmino in un villaggetto nel quale -forse- non hanno mai visto occidentali, con contadini bruciati dal sole che toccano i capelli biondi come fossero d’oro.
La vegetazione é brulla e spoglia, ma regge.
Poi, d’improvviso, una valle dalle pareti di sabbia e fango, con in fondo un fiume limaccioso, e, oltre, come fosse stato svuotato un secchio di sabbia, irreale, fuori posto, un deserto.
Non rocce o fango secco con le crepe: sabbia, dune ondulate, a perdita d’occhio,ma in una sola direzione. Quella é la gola della sabbia che canta (letteralmente “che gioca”}, Xia Sha Wan, 响沙湾. Superato il fiume melmoso con una seggiovia residuato di Cortina, si arriva ad un enorme parco giochi per cinesi. Ci sono le minijeep che permettono, con roboanti fumate nere, di fare un giro su un circuito nella sabbia, con accanto uno spallatissimo addetto che in alcuni casi tiene pure il volante. Ci sono i cammelli, in condizioni disastrose -veramente, da piangere-, che simulano una finta carovana per un paio di chilometri e ritorno. Ci sono un paio di vecchi camion militari scoperchiati, ricoperti con una carrozzeria di compensato a forma di un qualcosa fra la vespa e la balena che portano, lascio a voi immaginare cosa non si lasciano dietro, miriadi di cinesi in un veloce giretto dietro alle prima dune. E poi cose più classiche: il tirapugni, montato però sotto una tenda, il bar ecc… Tutto questo é preso d’assalto da orde di cinesi semplicemente estatici. Salutano tutti felicissimi, emettono grida, stridii, rutti e innumerevoli altre forme di gioia e sorridono. Non é dato sapere quanto tempo é che aspettano queste ferie. Il tutto é fra il grottesco e l’esilarante.

Se uno, comunque, si avventura un po’ verso il nulla, non ci vuol molto per ritrovarsi – per la prima volta da quando si é arrivati nel Regno di Mezzo – completamente soli in un posto completamente irreale.

E questo é ciò che c’era.

Se volete saperne di più sulla gola la potete contestualizzare qui

and the radioman says…

the screenwriters blues

the screenwriters blues

é il videoclip della canzone Screenwriter’s Blues dei Soul Coughin, un gruppo statunitense di Chicago.

Trovo questa canzone, un unico giro ripetuto all’infinito, evocativa come poche – la ascolto spesso, in questo periodo, mi fa pensare a splendidi viaggi, di notte, in macchina. Come quello che la prossima primavera spero di fare a Roma. Una notte in giro, in macchina, per la capitale. Una notturna.

E questo é il testo della canzone.

Exits to freeways
wisted like knots on
the fingers
jewels cleaving
skin between
breasts.
Your Cadillac breathes
four hundred horses
over blue lines
you are going
to Reseda
to make love
to a model
from Ohio
whose real name
you don’t
know

you spin
like the cadillac was
overturning down a
cliff on television
and the radio is on
and the radioman is speaking
and the radioman says
women were a curse
so men built Paramount
studios
and men built Columbia
studios
and men built
Los Angeles

it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles

And the radioman says
it is a beautiful night out there!
And the radioman says
Rock and Roll lives!
And the radioman says
it is a beautiful night out there
in Los Angeles
you live
in Los Angeles
and you are going to
Reseda; we are all
in some way or
another going to
Reseda someday
to die
and the radioman
laughs because
the radioman fucks
a model too

Gone savage
for teenagers with
automatic weapons and
boundless love
gone savage for
teenagers who are
aesthetically pleasing
in other words
fly
Los Angeles beckons
the teenagers
to come to her
on buses;
Los Angeles loves
love

it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles

I am going to
Los Angeles
to built a screenplay about
lovers who
murder each
other
I am going to
Los Angeles
to see my own
name on a
screen, five feet
long and luminous
as the radioman says
it is 5 am
and the sun has charred
the other side of
the world and come
back to us
and painted the smoke
over our heads
an imperial violet
it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles.

You are listening.
You are listening.
You are listening.
You are listening.

giacomo musicista – gli inizi

gli esordi

gli esordi

“ma scusa, suoni la chitarra e allora per questo ti pensi di essere un musicista?”, mi chiedeva incredulo, fra il serio e il faceto il mio professore della tesi.

Personaggio su cui scriverò, se lo merita.

Non ha certo tutti i torti. Comunque credo di essere un musicista. Insomma, suono la chitarra dal 1995, anche se un mese dopo che avevo cominciato ho pensato bene di sfracellare la mia amatissima vespa bianca 125 px contro un’alfa 33 che faceva inversione a U. La vespa se la cavò con la forca cambiata, io, tirando via il freno della frizione, mi ruppi per compressione uno dei mille ossicini che stanno incastrati fra palmo e dorso della mano; dovetti rompere il gesso per liberare almeno l’anulare (il mignolo era fuori discussione e gioco) e poter fare un qualche straccio di accordo.

In realtà  gli accordi, almeno all’inizio, erano i quattro che mia cugina A. mi aveva pazientemente insegnato per poter suonare autonomamente “Polly” dei Nirvana. Cosa che facevo per due-tre-quattro ore tutti i pomeriggi che dio metteva in terra, come potrà  confermare quel santo di mio zio che all’epoca -temo- stesse cercando di finire l’università  nonostante me, che stavo proprio sotto il suo studio, e pure i miei genitori, che invece condividevano solo l’intera casa con me.

In realtà  non la suonavo tutta, essendoci un barrè (il fatidico si maggiore) nel ritornello. Esauriti gli spunti di “Polly”, o meglio della strofa, e anche quelli offerti da tutte le canzoni che possano essere suonate conoscendo il mi minore, il sol, il do e il re, dopo un paio di mesi annunciai a mia cugina che volevo intraprendere il tortuoso percorso degli accordi barrati. Fu un periodo difficile, ma anche ricco di soddisfazioni. Mio zio -da sempre il mio guru musicale-, mi dette un libro per aspiranti chitarristi con cui si liberò quel tanto di me che gli consentisse una vita normale e, soprattutto, delle mie domande. Lasciò come appuntamento -in fondo era contento che suonassi la chitarra- una suonatina assieme, dalle due alle sette volte settimanali: per me un’autentica delizia. Nel frattempo avevo imparato a ritrovare gli accordi delle canzoni da solo (ascoltavo in pratica solo Nirvana, e non era difficile nel loro caso) e quindi avevo del materiale.

Verso giugno ero in grado di offrire un supporto decente per qualsiasi bivacco scout, cosa che per un egocentrico va benissimo.

In questo periodo cominciai a frequentare M. e M., due vicini di casa, batterista e bassista rispettivamente. Di loro, dirò in seguito.

G