Diversi anni fa mi fu raccontato un aneddoto. A dire il vero non ricordo se mi fu raccontato o l’ho letto, nè se nella storia i fatti si svolgessero come io li ricordo, nè tantomeno se la vicenda sia vera. Tuttavia la storia – che é in realtà una parabola – mi é sempre piaciuta molto.
Anni e anni fa una ONG aveva iniziato un progetto di cooperazione in un villaggio dell’Africa Subsahariana. I giovani cooperanti, pieni di voglia di fare e carichi di buone intenzioni, furono subito molto impressionati da un aspetto della vita del villaggio: essendo gli abitanti privi di un pozzo, ogni giorno le donne, dalle bimbe fino alle adulte, si facevano due ore di cammino per andare a prendere l’acqua fino al pozzo, e due e mezzo al ritorno, piegate sotto il carico delle gerle piene d’acqua sul capo.
Questa schiavitù impressionò fortemente i giovani cooperanti.
Periodicamente, assieme a cooperanti di altre ONG, antichi colonialisti, squali ed affaristi, diplomatici e gente in fuga, i giovani cooperanti si trovavano nella principale città della zona, per godere ogni tanto delle comodità e dei piaceri che distinguono un gentiluomo occidentale da un selvaggio.
Una di queste volte conobbero i dirigenti locali di una grande e famosa compagnia petrolifera, che risparmiava ai selvaggi del posto la fatica di estrarre il prezioso oro nero che gonfiava il loro sottosuolo, non lontano dal villaggio. Il più ardito di loro sottopose diplomaticamente la situazione del villaggio ai dirigenti della compagnia petrolifera, facendo notare come – con la loro tecnologia e il loro personale – sarebbe loro occorso pochissimo tempo per aprire un bel pozzo nel mezzo del villaggio.
I dirigenti, per qualche strana alchimia, accettarono, e prestarono gratuitamente parte del personale ed una trivella al nobile scopo.
In poco tempo il pozzo fu aperto, e il giogo della gerla fu tolto dal capo delle donne.
Dopo un mese, un mattino, gli increduli cooperanti trovarono il pozzo completamente ostruito, tanto che da non poter più essere utilizzato.
Ci volle tempo e fatica per trovare i colpevoli.
O meglio, le colpevoli.
Furono infatti le stesse donne a distruggere il pozzo.
Dopo molto altro tempo, i giovani cooperanti capirono anche le ragioni che stavano dietro al folle gesto.
Le quattro ore e mezzo-cinque che ogni giorno le donne trascorrevano nella lunga e faticosa operazione dell’acqua, erano per loro preziose. Durante quel tempo, infatti, erano libere, non sottoposte alla rigida autorità maschile, lontane dalla fatica della gestione della casa, dei figli, dei campi.
Durante quella lunga strada potevano discorrere, scherzare, spettegolare, cantare. Le donne insegnavano alle bimbe come si diventa donne. Era un momento loro.
Per questo avevano distrutto il pozzo, perché della presunta nuova libertà non se ne potevano far niente.
Il nocciolo credo sia che, come non si può esportare la democrazia, così non si possa imporre il progresso: una cosa é giungere ad una conquista in cinque secoli, sudandosela ogni giorno per cinquecento anni, un conto é trovarsi la conquista regalata, in poche ore, senza sforzo, senza un percorso.
Dispiace per i poveri giovani cooperanti, animati dalle migliori intenzioni, ma fascisti nell’intimo: il fatto che una conquista sia giusta, non significa poi molto nel mondo reale, se non si aiuta la gente ad arrivarci. Anzi, se il progresso lo si impone, di fatto ci si comporta da fave.
Mi piacerebbe che ci pensassero coloro che reputano che noi occidentali siamo arrivati, e gli altri ancora corrono.