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utilissimi consigli per smettere di fumare. Anzi, per fare una pausa dal fumo

zeman

zeman

Per smettere di fumare sono necessari alcuni semplici accorgimenti.

  • Diffida sempre delle persone con forte volontà: sono pessimi esempi per smettere di fumare
  • La volontà non c’entra niente, la devi prendere per sfinimento
  • Non prenderti mai sul serio: non devi avere la più pallida idea di quale sia l’ultima sigaretta che ti sei fumato, si smette così, di botto. Se ne deduce, quindi, che è assolutamente sbagliato non avere con sè le sigarette: meglio averne sempre (vedi più sotto)
  • Non hai smesso di fumare: sei in pausa, puoi ricominciare quando vuoi, anche subito, anche adesso; ma adesso non ne hai voglia, quindi magari dopo (tanto le sigarette le hai in saccoccia, mica scappano)
  • Il picco di astinenza nicotinica è doloroso, è un morso, una coltellata a tradimento, uno sgarbo da un amico caro, però dura poco. All’inizio, i picchi si susseguono senza sosta, al punto da desiderare di (ri)diventare credente per poter invocare con fiducia “Signore, prendimi!” o “Che il Signore mi apra la terra sotto i piedi” (che poi è lo stesso). La bellezza sta nell’osservare come questi picchi piano piano, come piace a Veltroni, si allontanino, segno che anche voi, esseri immondi privi di nerbo e volontà, possiate forse farcela
  • Se pensi che hai smesso per sempre di fumare, non ce la farai mai: è come se ti fosse venuta a mancare una persona cara, che lascia una malinconia incurabile addosso
  • Ricordati che non è che sei fatto male se ti piace tanto fumare: dopo aver visto per anni i nostri eroi che, dopo tanto sudare, si scopavano la super-topa del film, e subito dopo si facevano un cicchino (per altro a letto la cenere fa schifo anche a me), oppure che, dopo aver ucciso tantissimi cattivi che se lo meritavano, si sedevano sull’orlo di un dirupo a farsi un bel cicchino, è logico che a te, che sei un perdente, ti venga voglia – per lo meno – almeno di farti una sigaretta, eccheccazzo
  • Alla prima molecola di nicotina che fiuti nell’aria, non farti tante domande: scappa. Scappa più in fretta che puoi. Avrai tempo per smettere di farlo
  • O fumi, o non fumi: se ne fumi una ogni tanto, e magari te la godi, ma puoi anche stare un sacco di tempo senza fumare che non te ne accorgi, ecco, vedi di andare affanculo
  • Lascia perdere le canne: tanto finiresti per metterci un caccolino di fumo, e poi giù tutto tabacco – tanto vale farsi un bel cicchino ammodo

Sfida all’OK Corral

Luogo: un incrocio viennese (Brückengasse/Gumperdorferstrasse/Stumpergasse).
Io: in auto.
Lui: a piedi.
Io: determinato a ricordarmi che in Austria i pedoni sulle strisce hanno la precedenza. E tanta paura di sbagliare.
Lui: elasticità mentale di un bue muschiato.
Io: sto superando un incrocio fatto in modo un po’ sbilenco.
Lui: sta davanti alle strisce.
Io: mi fermo per farlo passare e lo guardo.
Lui: non passa e mi guarda.
Io: lo guardo.
Lui: accenna appena al semaforo dei pedoni, che è rosso.
Io: guardo il semaforo dei pedoni.
Lui: resta immobile.
Io: capisco e indico il semaforo dei pedoni, che continua ad essere rosso, come a dire “Ho capito, ora vado”.
Lui: sta e mi guarda come a dire “Sarà il caso”.
Io: rido e me ne vado.
Lui: resta nella ferma convinzione d’essere nel Giusto.

l’evoluzione dei padroni

garzoni

aspiranti garzoni edili in Triesterstraße

chi mi vuole per garzone
che lo voglio per padrone!

Comincia così la fiaba “I tre orfani” raccolta da Italo Calvino nel suo – splendido – “Fiabe Italiane”, che mi sta accompagnando da quando ero piccolo, e che mi sono portato a Vienna. Mi ha sempre colpito questa specie di filastrocca con cui, nella miseria nera, uno ad uno i tre orfani si immettono nel mercato del lavoro (come si dice oggi). Soprattutto le condizioni contrattuali – l’unica richiesta è: lavorare. Chiunque soddisfi questa richiesta basilare, semplice, ineccepibile, corrisponde all’idea di datore di lavoro, anzi di padrone, che il giovane desidera: non v’è menzione circa il salario, le garanzie, le ferie pagate, la maternità, la malattia. Non mi sembra un caso che la fiaba, per altro, provenga da una terra dura, aspra e bella come la Calabria.

Ogni mattina, per andare al “mio” castello (come dice Peppe “il castello di papà”) passo per la Triestestraße (dimenticano facilmente, qui), che mi conduce fuori Vienna. Lungo questo stradone sta un Obi, uno di questi grandi magazzini per il bricolage, ovvero per chi ha delle pruderie da homo faber, ma non la stoffa (tipo me). Davanti ad esso, ogni mattina che dio mette in terra, qualunque sia la stagione, la temperatura, lo stato del vento e l’umidità dell’aria, si affollano i braccianti.

Sono dai 4/5 fino a 20, ad occhio, saltellano da una gamba all’altra, si danno grandi pacche sulle spalle, si stringono nelle spalle, si alitano nelle mani. Ridono, scherzano, stanno appoggiati ad un lampione, fanno a botte, si gridano dietro, si guardano minacciosi.

Ma fondamentalmente aspettano che qualcuno li passi a prendere – ovvero dia loro una giornata di lavoro.

Condizioni contrattuali, sicurezza, sindacati, malattia, maternità: tutto questo non esiste. La capacità contrattuale di questi disgraziati consiste nel poter dire: “No grazie, per oggi resto a gelare sul marciapiede”.

Volendo continuare a metterla sul piano del “Va avanti chi ce la fa”, preoccupandosi più di non dare privilegi a chi non li merita, che di aiutare chi è più debole e più nel bisogno, non facciamo – non faremo – altro che aumentare la massa degli sconfitti, di coloro che non ce l’hanno fatta, dei deboli. E quando i deboli e gli sconfitti diventano molti, molti di più dei vincitori, dei forti e dei furbi, i ruoli si scambiano velocemente.

Per fortuna lo stato austriaco non è stato a guardare. Cosa ha fatto? Un rapido blitz con un paio di furgoni di poliziotti e due volanti – una retata vera e propria – e un bel controllo documenti, fatto lì sulla strada, ai disgraziati ad aspettare. Un gesto di elegante impotenza, come quando un bimbo grande ti fa un dispetto, e tu per la rabbia meni il primo più piccolo di te che ti si para davanti.

Viale al tramonto

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L’ho vista di lontano, mentre tornavamo a casa dal parco io, Peppe, Tim e William (con quest’ultimo Peppe intrattiene da quando avevano entrambi pochi mesi una regolare corrispondenza di botte, schianti e frignate).
Rigidamente curva, come fosse fatta interamente di vetro, arrancava trascinandosi una sporta modernissima, ultraleggera, dotata di un manico in alluminio da fare invidia ai rover della NASA su Marte, probabile regalo di un figlio sollecito e premuroso. La mia vicina, credo oltre i novanta, portati malissimo.
Mentre copriamo una cinquantina di metri riesce ad afferrare la borsetta, dopo aver sistemato la sporta in posizione eretta, appoggiato il bastone accanto al portone, e compiuto altre laboriose operazioni che non sto a riportare.
Fra me e Tim contiamo due passeggini, due borse e due bimbi.
Con un rapido e incerto scambio di battute Tim, inglese che parla un ottimo tedesco, capisce che la cariatide apprezzerebbe un aiuto da parte nostra. Dunque: io apro la porta e la tengo aperta (è a molla ovviamente) per far entrare nonna Austria, nel frattempo le due belve irrompono facendo quasi cadere la poveretta, che ha intrapreso le operazioni d’imbarco. Con un grido affatto mediterraneo, che mi vale l’appellativo di padre degenere, blocco le due belve sulle scale, mentre la vecchia avanza sul secondo gradino. Nel mentre Tim ha disposto una fila di passeggini così da facilitare l’entrata dei mezzi e dei bagagli.
Abbandono la vecchia al suo destino, fatto di gradini, corrimano e bimbi da evitare, e mi dedico ad aiutare Tim che sta imbarcando i passeggini con destrezza da Godzilla.
Chiudo la porta, prendo passeggino e borsa che mi competono e supero la vecchia (che già ha superato la prima rampa di quattro scalini e si appresta – battagliera – a sfidare la seconda, insidiosissima, di ben otto). Giungo all’ascensore: la macchina infame è un coerente prodotto della peggior cultura borghese.

Breve excursus polemico: a piano terra si apre solo con la chiave, e solo con essa, tenendola girata, è possibile farlo salire premendo in contemporanea il bottone del piano. Logaritmi che nemmeno Obama deve fare se vuole sganciare una bombetta atomica, e se hai una mano sola, infatti, il merdosissimo bottone del piano lo devi pigiare col naso. Per scendere invece, cioè per levarsi dalle palle, funziona benissimo e a gratis. In più scende sempre, autonomamente, a piano terra ogni volta che lo lasci solo per qualche minuto. Quando vengono ospiti, mi sento sempre a disagio per l’evidente mancanza di cortesia nei loro confronti arrecata dal mio ascensore. Ma vabbè.

Arrivo all’ascensore e apro la porta (che ovviamente ha una molla per richiudersi così potente che ci puoi tagliare un bue a metà). Con orrore realizzo che sarebbe poco carino andar su e lasciare la vegliarda a bocca asciutta. Tanto più che sta al mezzanino. E allora aspettiamo.

In meno di mezzora copre il corridoio e la rampa e, infine, giunge. Peppe già si succhia il dito in cerca di conforto.
Facilito le operazioni di ingresso tenendo la porta, e quando la vedo ormai autonoma, chiave alla mano, bastone appoggiato e dito (l’altro) sul tasto “M”, chiudo la porta.

Dopo un po’ di tempo, l’ascensore parte.

Sento che arriva al mezzanino, e premo la chiamata.

Dopo un po’ torna.

Apro la porta e ritrovo la vecchina, la chiave ancora nella toppa, che fra il mortificato, il fatalista e il divertito, mi dice: “È stato più veloce lui”.

La civiltà dello scooter (sull’arroganza)

A Firenze, complici un clima tutto sommato mite e un susseguirsi di amministrazioni comunali senza fantasia, fiorisce da qualche anno la civiltà dello scooter.

Questa possibile evoluzione della civiltà occidentale non prospera ovunque, grazie al cielo (nel senso del clima), ad amministrazioni più capaci, e forse anche a culture più evolute.

Un esemplare tipico di tale civiltà possiede un moderno scooter giapponese, di quelli col profilo da nave baleniera, lungo come una macchina, con una marmitta catalitica che fa vibrare cuori e cristallerie, dalla guida sportiva in posizione sgraziata, che regala grandi emozioni e artrosi a chi guida il potente mezzo (che ha una cilindrata da trattore a cingoli anni sessanta di marca cecoslovacca). Con questo elegante cetaceo della strada, il nostro (che chiameremo affettuosamente  Gastone) fende i flutti del traffico veicolare cittadino con nonchalance. Non vi fate ingannare dai miei fronzoli: i movimenti del mezzo non hanno nulla di aggraziato. Il buon Gastone, infatti, complice un assetto calibrato sul peggior autista reperibile in zona Yokohama, bauscula a destra e a manca, evitando pericolosamente tutto ciò che si trova in carreggiata per pochi peli, con una grazia da facocero. Questo semplicemente perché non sa guidare, nessuno glielo ha mai insegnato, nessuno si prende la briga di farglielo notare, e Gastone stesso, infine, è convinto di essere un asso delle due ruote. Bravi i Giapponesi, nulla da dire. Riuscire a far sentire Valentino Rossi un dramma della guida come Gastone non è cosa da poco, e si meritano le migliaia di euri che il nostro ha generosamente investito per l’acquisto dell’orrido mezzo (che chiameremo Moby in ossequio al meno gentile omologo). Per completare il quadro: Gastone vive e lavora a Firenze, ha un casco a padella che gli copre un decimo del cranio – rasato ma non perchè ha una incipiente e impietosa calvizie, ma perchè a lui piace così – e gli occhiali a goccia.

Ma il problema estetico, sia per quanto riguarda Moby che lo stile di guida di Gastone, è tutto sommato marginale.

Il vero problema è l’attitudine di Gastone alla guida, ovvero alla vita in generale. Gastone è infatti convinto di avere la Precedenza. Non in senso lato, né in senso metaforico o stradale: egli crede di avere precedenza sul suo Prossimo, ovvero su tutti.

Un esempio pratico: se un autista distratto si è fermato per fare attraversare una mamma con figli e sacchi della Coop a seguito, e a causa di questa grave debolezza si è formata una coda di macchine, Gastone se ne fotte. Con un colpo di reni (grazie a dio ben bilanciato da Moby, altrimenti Gastone formerebbe ora un grazioso fregio sullo spigolo dell’edificio prospicente la manovra) egli evita la coda, la sorpassa senza modificare la propria velocità, si infila fra la mamma – paralizzata dall’orrore – e il sacchetto delle verdure (che essendo di quella nuova sostanza biodegradabile che sa di popcorn si sfalda subito a causa dello spostamento d’aria), e prosegue il proprio cammino come nulla fosse.

Al semaforo, Gastone si infila fra le macchine, decora gli specchietti laterali con pregiate incisioni, e si piazza davanti a tutti sulla linea bianca. Se ci sono altri scooteristi, si infila fra di essi, altrimenti va direttamente sulle strisce pedonali, accomodandosi fra vecchine e passeggini. Dopodiché si accende una sigaretta, compone un numero di telefono e si infila il cellulare fra orecchio e casco. Quando scatta il verde, Gastone ha incastrato momentaneamente la sigaretta sulla leva del freno, e, mentre grida al vivavoce, sta cercando un indirizzo sul suo telefono intelligente (1). Gli scooter sono intanto tutti partiti, a parte altri due che si stanno sfidando a battaglia navale via dente-blu (2), la prima macchina è una Simca 1000 con al volante una vecchina, che sconcertata attende. Quelli dietro, che la sanno lunga e sono un po’ più navigati, attaccano a suonare tutto il loro disappunto. Gastone a questo punto perde le staffe: con una manata fa volar via il cicchino, congeda l’interlocutore telefonico con un secco “scusa, non hai idea di che stronzi ho dietro al culo”, re-incastra il cellulare fra orecchio e casco, si gira, manda affanculo la vecchina chiedendole – bicipiti al vento – cosa cazzo voglia (omettendo il congiuntivo – va detto), dopodiché sgassa e riparte.

Ora: avete mai visto tanta crudeltà – chiederebbero in un film di Mel Brooks?

Il fatto è che Gastone sa che il traffico di Firenze senza di lui collasserebbe in un attimo, ed in virtù di questa Conoscenza egli se ne fotte. Inoltre, nel caso ci fossero residui di perplessità circa tale atteggiamento, egli è più veloce, e dunque si sbriga prima, e non ha senso che aspetti.

Nessuna amministrazione fiorentina sino ad ora – sorprendentemente nemmeno l’ottimo Renzi che è bravissimo, nuovissimo e pieno di innovative idee (ad esempio tenere aperti i negozi il primo Maggio: ci avevate mai pensato voi? Io no: incredibile il Renzi), dicevo nessuna amministrazione comunale si è presa in alcun modo la briga, infatti, di pelare l’odiossissima gatta che è il traffico a Firenze, imponendo qualche iniziale misura impopolare – rischiando dunque, ma applicando un’idea politica almeno – per poi bearsi di un sistema, tipo quello Viennese, in cui non conviene pigliare la macchina, semplicemente. Da qui si potrebbe misurare con un grado piuttosto accurato l’incapacità e la pochezza dei politici della città del Rinascimento, ma insomma, non divaghiamo.

Questa attitudine di Gastone, purtroppo, non si limita alla sola guida. Ma anche qui, nessuno si è preso la briga di pelare questa gatta.

A Vienna, guidare è un’esperienza diversa. Ho trovato stranissimo percepire, in modo sempre più completo, come il traffico sia un habitat con molteplici dimensioni, che differiscono dal “tuo” traffico in sfumature e aspetti più corposi. Pensavo che fosse più semplice, tipo “a Vienna il traffico è più ordinato”, e banalità del genere.

In Austria, comunque, ho trovato, in strada e non, un’attitudine algida ma positiva – o forse rassegnata, chissà – nei confronti del prossimo. Se ti fermi in mezzo alla strada con la macchina (hai forato, ti si è spenta, t’è venuta voglia di fare una sveltina con chi ti sta accanto: quel che volete), la gente non suona quasi mai. Aspettano pazienti, e se vedono che va per le lunghe, al massimo cambiano corsia e proseguono signorili, senza sbracciarsi fuori dal finestrino, gridando improperi. Semplicemente pensano che, se stai rompendo loro i coglioni, tu lo faccia per un motivo serio, per un ottimo motivo che merita la loro comprensione, e mai che tu ti stia facendo beatamente i cazzi tuoi.

Se in Austria ti stai facendo i fatti tuoi sul marciapiede, vedi di farlo lontano dalle strisce. Automobilisti, camionisti, scooteristi e motociclisti, infatti, si immobilizzano senza indugio in prossimità degli attraversamenti pedonali, se un pedone minaccia, anche solo vagamente, di attraversare. E aspettano finchè l’intera operazione non è terminata. Nel caso tu indugi, ecco, magari in quel caso sì, dopo un cinque minuti ti fanno un colpetto di clacson, così che tu sappia (magari lo ignori – a me è capitato) che loro stanno aspettando che tu attraversi, e che se non vuoi attraversare, basta che tu ti allontani dalle strisce, altrimenti loro devon star lì. Certo, poco elastici, ma volete mettere la bellezza di attraversare la strada sulle strisce senza guardare?

Un altro piccolo particolare: in Italia scatta prima il verde per le macchine, e poi quello per i pedoni. In questo modo, il pedone che vuole attraversare è costretto ad aspettare che le macchine che svoltano siano passate, perché son partite prima di lui. In Austria è il contrario, così che le auto e gli scooter che devono girare, trovano già una fila di pedoni che, seraficamente (e secondo me anche un po’ strafottenti), attraversano, e devono aspettare loro.

Insomma, si ha la sensazione che il più “forte” debba dare la precedenza al più “debole”, ovvero più veloce vai, meno hai bisogno di precedenze.

Come il buon Gastone. Uguale.

l'immagine non è proprio pertinente, ma insomma, è carina!


(1) smartphone egli lo chiama.

(2) bluetooth, in inglese nel testo.

Le poppe delle donne viennesi

Alcuni mesi fa il mio amico A. è stato a Vienna. Tornato, mi ha redarguito, un po’ risentito, perché non lo avevo mai edotto circa le prosperose poppe delle donne austriache.
Al che sono rimasto perplesso: come sanno le persone che mi conoscono, coltivo dall’asilo una felice passione per una delle più sottovalutate opere d’arte presente a questo mondo, ovvero le poppe delle donne. E, si badi bene, le poppe come valore in sé, indipendentemente – al contrario di come si narra in taluni epos metropolitani – dalle dimensioni. Al massimo la forma, ecco.
Dicevo, sono rimasto piuttosto perplesso perché, in tanti anni di pendolarismo amoroso nella città asburgica, mai mi ero soffermato su quel particolare. E dunque mi sono rattristato, adducendo la cosa alla vecchiaia.
Arrivato a Vienna, mi sono accorto con meraviglia che effettivamente è successo qualcosa, alle poppe delle donne viennesi. Sono diventate tutte decisamente grandi.
Ho comunque tenuto la cosa per me, ma non mi sono potuto esimere dallo studio del fenomeno.
Anzitutto, non si tratta della metamorfosi che ha interessato le nostre donne italiche, ovvero la triste moda del reggipoppe imbottito e putrellato: pur avendo tale costume l’indubbio pregio di stimolare come un tempo la fantasia di noi estimatori (“chissà come saranno fatte davvero, oltre quella coltre…”), è inevitabile che si produca un fastidioso effetto di omogeneizzazione, per cui le donne finiscono per avere le poppe tutte della stessa forma bugnata, cambiano solo le dimensioni. Bene, non si tratta di questo: permane infatti intatta una notevole biodiversità.
Ho dunque pensato ad un rimescolamento genetico – tanto inviso sarebbe stato ai padri austriaci dell’Inter-guerra – dovuto all’immigrazione balcanica e turca, ma non avviene certo in un paio d’anni, e non in modo così repentino.

Poi anche la mia dolce metà se n’è accorta, e ha sollevato il problema. Insieme, abbiamo elaborato questa tesi: le donne austriache sono procaci, e lo sono sempre state, ma essendo piuttosto flaccidine di costituzione, la cosa non è mai emersa in in tutto il suo splendore, vuoi anche per la sobrietà dei costumi austriaci. L’avvento di nuovi reggiseni, putrellati ma non imbottiti, unitamente a mode un po’ più disinvolte, spiegherebbero il tutto.

Per numerosi motivi, mi trovo purtroppo impossibilitato a pubblicare foto che possano corroborare questa tesi.

Non volersi bene (ovvero far le cose di malavoglia – ovvero a cazzo di cane)

lavoro di fino

un lavorino di fino

Questa meraviglia è il frutto di una mattinata di lavoro di un solerte ed incomprensibile caldaista viennese.

Ma partiamo dall’inizio.

La nostra padrona di casa (Frau Pollack) pattuisce con noi una cifra per l’affitto, un ottimo affare per la casa, che però non può essere affittata a molto perchè non “renoviert”. Poi scopre che deve rifare la cucina, e da signora la rifà. Cerca di tirar su il prezzo, ma la Molino tiene duro, e accetta solo un piccolo rialzo. Qua se fai un lavoro alla cucina, devono venire i marcantoni della Wien Energie a controllare che sia stato fatto a modino – mica cazzi. E dopo un mese e passa dal lavoro (potevamo essere morti per le esalazioni, ma insomma non ci formalizziamo) arrivano due tizi – che svegliano tutti perchè sono le 7.17. I due, alternando prove di grande spessore tecnologico ad empirismi alla MacGyver sentenziano che le emissioni gassose della caldaia superano la soglia di parecchio; ma parecchio. Insomma la spengono, dicendo che loro la devono spegnere. Però ci fanno anche vedere come si fa a riaccendere (sono cazzi nostri se muoriamo, beninteso, ma hanno il buon cuore di farci morire puliti). Provvederanno loro a dire all’amministratrice condominiale che provveda. E se ne vanno.

Il mattino dopo arriva un tizio. In casa ci sono io, e, a gesti, ci comunichiamo a vicenda che non capiamo un cazzo l’uno della lingua dell’altro. Per rimarcare l’abisso che ci separa, l’ometto (che ricorda stranamente un orsetto lavatore, un operoso procione) rifiuta anche il caffè (ancora mi vengono le lacrime al pensiero: un caldaista che mi rifiuta un caffè – un caldaista viennese che mi rifiuta il mio espresso arabica coop fatto con la bialetti: selvaggio). Comunque mi fa capire che lui la caldaia non la può riparare perchè è di marca a lui non cognita. Dirà alla compagnia di mandare qualcun’altro. Bah. E va via.

Arriva un altro tizio, smadonna un po’, e poi che dice che la caldaia è rotta e va cambiata. Per corroborare la diagnosi, prova ripetutamente – con uno sguardo che cerca il mio assenso – ad accenderla senza successo. E se ne va.

Il mattino dopo arriva una Frau Pollack provata, ma sempre signorile. Trova “komisch” che la caldaia abbia smesso proprio ora di funzionare. Era vecchia, ma insomma. L’enorme uomo della caldaia (è uno mai visto: lui il caffè lo ha preso nonostante abbia delle extrasistole che gli tremano le tonsille – mi fa capire e io capisco) ribadisce, con eloquenti gesti fatalisti, che non c’è altro da fare che cambiare la caldaia. La signora si conficca una forchetta nel palmo, inspira, e dà l’assenso. Siamo pur sempre un paese civile: inquilini che puzzano non se ne vogliono. E lascia amabilmente la scena. (in realtà sono sinceramente grato alla Frau Pollack, che ha speso una fortuna ed è stata sfortunata, ma che si è comportata in modo oltremodo urbano).

Ecco, io dico: un paese che ti segue, veglia sui tuoi sonni, controlla che tu non schiatti per le esalazioni o che tu faccia saltar per aria una palazzina, in cui non si lasciano gli inquilini senz’acqua calda nemmeno d’estate (se così la vogliamo chiamare), in cui c’è dialogo (al di là del grazioso siparietto col caldaista, pensate all’inusuale colloquio fra il gestore locale di energia e l’amministratrice condominiale), ecco, in un paese così alla fine però non ci si vuole bene.

O che si fa un accrocchio di tubi in quel modo, con le mattonelle scassate a cazzo di cane, tutto sporco, con la scatola dei collegamenti che penzola? Questo si chiama non volersi bene, o per lo meno non abbastanza, e qui lo fanno sempre.

Vedi queste facciate linde, immacolate, perfette, poi ti avvicini, e lo stipite della finestra è messo storto, con la vernice che ha smerdato il muro.

Queste case strafighe, con i mobili che paiono tutti pezzi unici, il parquet che ci puoi trascinare un bebè per le gambe che il culo non gli si graffia nè irrita, e poi le mattonelle del cesso sono sbregate per far sortire il tubo che va al termosifone, con tutta la polvere e i lanicci che fan festa nel buco.

‘Sti omìni vestiti bene, distinti, col fazzoletto che esce dal taschino, che ti mozzano il fiato per il puzzo di sudore (e via, se lo dico io buona camicia a tutti).

La gente qua si tratta bene, ma con la testa è altrove, non ti vogliono bene per davvero.

Il regno dell’oscurità e i suoi goblin

La torre - il regno dell'oscurità

La torre - luminose eh le finestre in alto! Io sto sotto.

Sono ospitato in un centro di ricerca internazionale, fra i cui membri ovviamente l’Italia non figura.

Durante l’estate il centro si popola di studenti un po’ da tutto il mondo, e questo riempie abbastanza le stanze, per cui per me posto non ne è stato trovato. Per lo meno non insieme al gruppo cui faccio riferimento.

Il centro ha il quartier generale (così dicono loro) in un bel castello austriaco, che si affaccia su una piazza immacolata a nord e un parco enorme, altrettanto immacolato, a sud. Sulla piazza c’è anche un timido municipio ed una chiesa, ben più disinvolta. Ma ovviamente è il castello a farla da padrone; d’altra parte fra impero, democrazia e chiesa, il gioco delle parti quassù mi pare sia questo.
Il centro è suddiviso in aree, ognuna con la sua storia, i suoi aneddoti e le sue corti dei miracoli. In Italia, sarebbero sorte faide e lotte mortali fra le varie aree, qui se ci sono attriti si ignorano – al massimo. I più ardimentosi ed emancipati sfottono.
A me mi hanno proposto la torre.
Ora, devo confessare che ho sempre desiderato stare in una torre.
Purtroppo l’ambiente, seppure fosse adibito a sala dei giochi per i rampolli della famiglia imperiale, è un tantino malsano: feritoie al posto delle finestre, umidità, pareti ricoperte da graziosi (orridi) affreschi georgici di dubbio gusto, che altro non fanno se non togliere luce. Da qui il nome “Regno dell’oscurità”, che sale alla bocca spontaneo, lasciando l’ascensore…
Inoltre, il mio ufficio in realtà è stanza di passaggio, sia per gli sportivi che optano per la scala a chiocciola, disdegnando l’ascensore anni 70, e che aprendo la porta in cima alle scale trovano me, sia per quei – pochissimi – che espletano i proprio bisogni corporali in orario d’ufficio: il cesso infatti si affaccia pure (gran comodità, va detto) sul mio ufficio.
La torre è abitata da una folta comunità sino-giapponese (i primi a volte usano il bagno, i secondi mai), un europeo – direi olandese, e frequentatori occasionali, fra cui anche turisti.
L’olandese si dimentica – tutti i giorni che dio mette in terra o quasi – che l’andito è ora abitato, e tutti i giorni – o quasi – prende la scala, apre la porta, si spaventa abbastanza rumorosamente, si maledice, stringe i pugni per la stizza e poi attacca a scusarsi più e più volte, mentre – goffamente – abbandona la scena. Questo simpaticissimo teatrino si ripete – ormai in modo imbarazzante – almeno due/tre volte a settimana, tanto che comincio a pensare che sia un modo garbato e pittoresco di farmi capire che sarebbe gradito se mio levassi dai coglioni, ma fino a settembre, ahiloro, non se ne parla!

In ogni caso, devo dire, sono consapevole dell’immane botta di culo che ho avuto ad essere ospitato là, sia ben chiaro!

E poi, quanti di voi lavorano in una torre di un castello da sogno?

Il centro di ricerca

A sinistra, chiesa e comune, a destra: das Schloß