Nell’autunno 1990, quando avevo 12 anni, assecondando un mio desiderio e la mia indole, mia madre mi iscrisse a “teatro”, come veniva comunemente chiamata l’animazione teatrale per ragazzi che Alfredo Puccianti organizzava ogni anno nel comune di Fiesole.
Ricordo che passai gran parte del pomeriggio a ballare la Zorba (quando sono trionfante, non riesco a fare a meno di ballare: cambiano solo i pezzi che accompagnano la danza, se così vogliamo chiamare il mio muoversi scomposto) e a improvvisare pezzi di teatro in soggiorno, entusiasta ed estatico.
Alfredo Puccianti era – perché purtroppo é morto stroncato dal suo amore viscerale per i cicchini – un personaggio eclettico e a suo modo geniale.
Aveva un carattere eclettico, nel senso che andava naturalmente dall’avere quello che in genere viene definito “un carattere di merda” ad essere persona di grande capacità di comprensione e sensibilità .
Il cinema era la sua vita, la sua passione – direi per quello che l’ho conosciuto, e questo si riverberava nel suo farci far teatro: scene epiche e corali, recitazione assolutamente non teatrale – fin dove possibile, ovviamente.
Lavorava con i ragazzi, dalla prima media in su…man mano che diventavano grandi, passavano al gruppo dei grandi, con cui faceva altri spettacoli e che lo aiutavano nel fare quelli con i più piccoli (eravamo una caterva).
Ho sempre amato questo modo di far teatro: recitazione più “verista”, nel senso che mancava l’enfasi e l’accentuazione tipica del teatro (a favore di una recitazione di tipo cinematografico, direi da profano), e nello stesso tempo restava quella componente fondamentale, per me, che era il pubblico.
Già , il pubblico.
Ricordo perfettamente, nonostante abbia lasciato Alfredo nel 1995, la sensazione dello spettacolo, anzi, le sensazioni.
Ricordo appena prima dell’entrata in scena, la tensione tutta erotica di poco prima che cominciasse la mia parte: ogni nervo teso, il buio, il brusio quasi indistinguibile dietro le quinte, gli scambi di effusioni e auguri fra gli attori, la gente che si cambiava freneticamente, chi ripassava la parte, e poi via, dentro il ventro buio del palco.
E là , nel buio, davanti a te stava la bestia, che respirava con un solo respiro, in attesa: il pubblico.
E poi la luce, abbagliante, calda, piena di polvere in sospensione, e dietro l’animale che ti guardava.
Un istante di panico – sempre. Se non ricordi la prima parola non partirai mai, non ti stai ricordando la prima parola, la prima parola é il bandolo, afferralo, e uscirai dal labirinto, prendilo e non mollarlo più, seguirlo sarà facile, a quel punto potrai anche fare strade diverse e uscirai lo stesso, ma prendilo, prendilo. E davanti, invisibile dietro le luci, l’animale immenso e respira, non lo vedi ma lo senti.
E poi via, afferri il capo del filo, e il filo scompare, e a quel punto sei padrone di te stesso e dell’animale davanti a te, decidi tu come uscire dal labirinto. Sì, sono un egocentrico presuntuoso. Mentre recitavo, appena dopo l’incipit, sentivo di averlo in pugno, quell’animale, di portarlo dove volevo io, di dominarlo, di farlo sognare e vibrare. Magari non é mai stato vero, magari solo a volte, magari sì: é una cosa che non mi interessa affatto.
Era una sensazione inebriante.
Poi si tornava, abbracci dietro le quinte, baci, pacche, carezze: gli attori hanno un’intimità , nel buio dietro le quinte, che rasenta quella degli amanti.
Alfredo mi ha conquistato da subito, dalla prima volta che mi chiese – come esercizio, come faceva fare a tutti – di recitare un verso. Cominciava pressappoco così: “ah che meraviglia questo vino caldo”. Io usai la pronuncia dell’integrazione, il fiorentino che avevo imparato per non sentirmi diverso e, soprattutto, per non farmi prendere in giro.
Alfredo mi interruppe subito: “No, no no. Giacomo, hai la fortuna di saper parlare italiano: quando reciti, parla come sai parlare, non come parlano gli altri”. In un attimo mi restituì la dignità del mio parlare, che per anni avevo dovuto celare ed adattare per via dell’emarginazione – non marcatissima per carità – che ne derivava.
Mi dette quasi sempre parti bellissime, almeno per me: fui “Doc Holliday” nel “Wild West Show”, personaggio mitico, con una sigaretta spenta in bocca (rubata alla Manu e portata in bocca in barba al divieto assoluto di farlo da parte della Manu stessa), malato, con una doppietta bellissima; ero anche il prete della prima scena, ricordo ancora, parola per parola, la mia parte, nonostante siano passati ventanni. Fui “Al Capone” in “Al e Charlie in: America”, che recitai in un palermitano decente dopo essere andato a scuola di dizione da mia nonna, che pazientemente e gaiamente mi recitò tutta la mia parte, sottolineando l’accento e la pronuncia corretta per farlo in un siciliano credibile. Fui una ragazza con l’accento francese – la parte più difficile che ho dovuto mai fare – in “Zuppa d’anatra”, spettacolo visionario al limite del comprensibile, in cui vestivo un vestito da donna strettissimo. però in quello spettacolo potevo gustarmi le forme di un’attrice che mi piaceva molto e che – per forza di cose – doveva cambiarsi tutte le volte davanti a me, per cui il supplizio del vestito lo accettavo volentieri. Fui l’agente segreto che rappresentava tutte le controrivoluzioni nello spettacolo “Que viva mexico”.
Questo scritto lo dedico ad Alfredo, con cui litigai e mi lasciai male, al quale ho voluto bene e cui devo ricordi splendidi, e che mi ha insegnato a recitare.