Con la mia dolce metà (meta?) parliamo parecchio. Un cameriere l’altro giorno me l’ha pure chiesto:
“scusa ti posso fare una domanda personale?”
“vai”
“tu e tua moglie convivete, no? – annuisco – da quanto?”
“ma senti, convivere da sei anni, insieme da tredici”
“ecco ma com’è che c’avete ancora tutte ‘ste cose da dirvi?”
Ma non sbrodoliamoci addosso: volevo dire che si finisce spesso per ragionare sulla rigidità austriaca, io e la mia bella.
Lo scorso inverno, mentre camminavamo per buie strade periferiche di Vienna, nevicava, il passeggino procedeva a stento, Peppe già cominciava ad incazzarsi di brutto, ho avuto un piccolo lampo.
Qua in Austria, d’inverno, non si scherza. O meglio, nella storia non s’é mai scherzato molto.
Qua d’inverno si moriva di freddo, ma per davvero. Da mangiare c’era poco (neve dappertutto), e le cose andavano pianificate ammodino: non è che uno dice “esco” e va. Qua se facevi il furbo e rimanevi a giro per un qualsiasi motivo, semplicemente ti trovavano il mattino dopo come un diacciòlo. E comunque tipo in Finlandia è ancora così: se ti si ferma la macchina di notte in inverno, o hai un telefono, o hai chi ti accompagna con una seconda macchina, o buona notte ai suonatori.
Non è come da noi, che si fa sempre a tempo, che si può sempre rimediare, che se oggi piove, domani sarà bel tempo, che se hai dimenticato il giubbotto, patirai un po’ fresco, che se non hai portato i guantini della belva, pazienza, che se Berlusconi s’è mangiato tutto, poi viene Monty. Da noi finisce sempre a tarallucci e vino, alla volemosebbeneannamoavanti, alla “che c’hai’na sigaretta? prestame cento lire” (cit. Remo Remotti). Perché è vero, non si ha mai la percezione dell’ineluttabilità, del non ritorno, del definitivo.
E così, ogni sprazzo di sole son barbecue a palla, sono parchi gremiti di carrozzine, sono poppe al vento (che Dio le (ri)benedica), gite fuori porta.
Un sabato mattina c’era una bellissima stagione: sole, caldo, un incanto. “Vabbè, dai, usciamo dopo pranzo, tanto è estate”.
Nero, vento, pioggia e freddo. Pareva autunno inoltrato, nel volgere di un paio d’ore.
Un inverno di diversi anni fa, una la mia amica M., della Stiria, una regione a sud ovest di Vienna, si trovava alla stazione di Palermo. Sente parlare nel suo dialetto, si volta, e non vede nessuno. Poi abbassa lo sguardo e vede un paio di barboni, sdraiati in mezzo ai cartoni, che chiacchierano.
“Ma voi siete austriaci! Siete della Stiria!” esclama M. felice ed incredula
“Sì” rispondono loro
“E che ci fate qui a Palermo?”
“Semplice: d’estate giriamo per l’Austria, o se ci va da qualche altra parte, chè si sta freschi. Ma d’inverno veniamo giù, che si sta al calduccio e non si muore di freddo!”.
La storia lo ha insegnato loro: qua se non eri preciso, ordinato, metodico, semplicemente tiravi le cuoia. Qui se sbagliavi morivi, se ti fermavi eri perduto.
Ora ovviamente non è più così, per niente – a parte i barboni, ora che ci penso, e chissà, magari anche altri – ma capisco lo strutturarsi, nel tempo, di una cultura dura, spietata, pratica.
E se per generazioni la natura ti tratta con poca gentilezza, beh, si può capire un po’ di ruvidità.