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Gente che c’è rimasta sotto


"Il miglior giornale per i migliori lettori"

Emancipazione

Alla fermata del tram campeggia questa pubblicità. La traduzione (di google translate, ma c’ero arrivato anche io – figuratevi) suona pressappoco così: “Il miglior giornale per i migliori lettori”. Naturalmente, dietro al giornale ci immaginiamo un Francesco Giuseppe nel fiore degli anni che legge soddisfatto.

 

Un po’ di giorni fa, ha tirato le cuoia Otto d’Asburgo-Lorena, erede virtuale al trono. Non vi dico i servizi, i giornali, la gente: tutti tristi, tutti implicitamente a rimembrare i giorni lieti e i fasti dell’Impero.

Questi disgraziati, effettivamente, da che erano il cuore dell’Europa, una corte imponente (per quanto retta spesso da clamorosi inetti), che difendeva l’Europa contro le orde turche (che si pulivano sorridenti il culo con l’acqua del Danubio alle porte di Vienna, magari a monte della città), che ha prodotto Mozart (e le relative palle), la Sacher, Klimt e quant’altro, ecco, da tutto questo si trovano (dopo aver perso una guerra mondiale, essersi fatti volontariamente annettere dalla Germania nazista, perso una seconda guerra) ad essere un rutto sulla cortina di ferro, a penzoloni fra stati fantoccio del patto di Varsavia (badate che Vienna è davvero ad est), con a due passi un’unione sovietica con la sindrome da invasione facile.
Per uscirne, optano per la porta di dietro: noi scompariamo, voi ci lasciate in pace. Dell’Austria non se ne sente più parlare, a parte il delizioso siparietto inaugurato – e chiuso – da Haider, per altro recentemente.

E io ci credo che son sempre li a ricordare i bei tempi che furono, a disprezzare i tedeschi (che comunque hanno abbandonato al loro destino, dopo esserne stati co-artefici), ad andare in giro vestiti da matti con le parrucche tipo Mozart: ora è un paese per pensionati.

Per altro mi dicono che sia davvero meta di emigrazione senile per via del fatto che qua ancora si può fumare un po’ dappertutto e la gente non ti rompe le balle a riguardo (men che mai i figli lasciati in patria!).

Bei tempi

Da http://www.oocities.org/historyofaustria/austriamaps1.html

Non volersi bene (ovvero far le cose di malavoglia – ovvero a cazzo di cane)

lavoro di fino

un lavorino di fino

Questa meraviglia è il frutto di una mattinata di lavoro di un solerte ed incomprensibile caldaista viennese.

Ma partiamo dall’inizio.

La nostra padrona di casa (Frau Pollack) pattuisce con noi una cifra per l’affitto, un ottimo affare per la casa, che però non può essere affittata a molto perchè non “renoviert”. Poi scopre che deve rifare la cucina, e da signora la rifà. Cerca di tirar su il prezzo, ma la Molino tiene duro, e accetta solo un piccolo rialzo. Qua se fai un lavoro alla cucina, devono venire i marcantoni della Wien Energie a controllare che sia stato fatto a modino – mica cazzi. E dopo un mese e passa dal lavoro (potevamo essere morti per le esalazioni, ma insomma non ci formalizziamo) arrivano due tizi – che svegliano tutti perchè sono le 7.17. I due, alternando prove di grande spessore tecnologico ad empirismi alla MacGyver sentenziano che le emissioni gassose della caldaia superano la soglia di parecchio; ma parecchio. Insomma la spengono, dicendo che loro la devono spegnere. Però ci fanno anche vedere come si fa a riaccendere (sono cazzi nostri se muoriamo, beninteso, ma hanno il buon cuore di farci morire puliti). Provvederanno loro a dire all’amministratrice condominiale che provveda. E se ne vanno.

Il mattino dopo arriva un tizio. In casa ci sono io, e, a gesti, ci comunichiamo a vicenda che non capiamo un cazzo l’uno della lingua dell’altro. Per rimarcare l’abisso che ci separa, l’ometto (che ricorda stranamente un orsetto lavatore, un operoso procione) rifiuta anche il caffè (ancora mi vengono le lacrime al pensiero: un caldaista che mi rifiuta un caffè – un caldaista viennese che mi rifiuta il mio espresso arabica coop fatto con la bialetti: selvaggio). Comunque mi fa capire che lui la caldaia non la può riparare perchè è di marca a lui non cognita. Dirà alla compagnia di mandare qualcun’altro. Bah. E va via.

Arriva un altro tizio, smadonna un po’, e poi che dice che la caldaia è rotta e va cambiata. Per corroborare la diagnosi, prova ripetutamente – con uno sguardo che cerca il mio assenso – ad accenderla senza successo. E se ne va.

Il mattino dopo arriva una Frau Pollack provata, ma sempre signorile. Trova “komisch” che la caldaia abbia smesso proprio ora di funzionare. Era vecchia, ma insomma. L’enorme uomo della caldaia (è uno mai visto: lui il caffè lo ha preso nonostante abbia delle extrasistole che gli tremano le tonsille – mi fa capire e io capisco) ribadisce, con eloquenti gesti fatalisti, che non c’è altro da fare che cambiare la caldaia. La signora si conficca una forchetta nel palmo, inspira, e dà l’assenso. Siamo pur sempre un paese civile: inquilini che puzzano non se ne vogliono. E lascia amabilmente la scena. (in realtà sono sinceramente grato alla Frau Pollack, che ha speso una fortuna ed è stata sfortunata, ma che si è comportata in modo oltremodo urbano).

Ecco, io dico: un paese che ti segue, veglia sui tuoi sonni, controlla che tu non schiatti per le esalazioni o che tu faccia saltar per aria una palazzina, in cui non si lasciano gli inquilini senz’acqua calda nemmeno d’estate (se così la vogliamo chiamare), in cui c’è dialogo (al di là del grazioso siparietto col caldaista, pensate all’inusuale colloquio fra il gestore locale di energia e l’amministratrice condominiale), ecco, in un paese così alla fine però non ci si vuole bene.

O che si fa un accrocchio di tubi in quel modo, con le mattonelle scassate a cazzo di cane, tutto sporco, con la scatola dei collegamenti che penzola? Questo si chiama non volersi bene, o per lo meno non abbastanza, e qui lo fanno sempre.

Vedi queste facciate linde, immacolate, perfette, poi ti avvicini, e lo stipite della finestra è messo storto, con la vernice che ha smerdato il muro.

Queste case strafighe, con i mobili che paiono tutti pezzi unici, il parquet che ci puoi trascinare un bebè per le gambe che il culo non gli si graffia nè irrita, e poi le mattonelle del cesso sono sbregate per far sortire il tubo che va al termosifone, con tutta la polvere e i lanicci che fan festa nel buco.

‘Sti omìni vestiti bene, distinti, col fazzoletto che esce dal taschino, che ti mozzano il fiato per il puzzo di sudore (e via, se lo dico io buona camicia a tutti).

La gente qua si tratta bene, ma con la testa è altrove, non ti vogliono bene per davvero.

Il mito della sovraoccupazione

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“L’Austria di oggi è molto più comunista dell’Unione Sovietica!”
Così mi ha detto una dottoranda russa che ho incontrato in treno.
In effetti lo stato sociale qua ti prende per mano e ti carezza, mentre ti aiuta. Se fai un bimbo, o una bimba, insomma se ti riproduci con successo, lo stato ti ringrazia, apprezza il fatto che tu ti sia accollato questa responsabilità, e lo fa con grande pragmatismo: non mi pare ti diano targhe o distintitivi, però ti danno soldi e aiuti. Aiuti vuol dire che ti garantiscono un asilo, che te lo pagano, che garantiscono alla madre la possibilità di stare a casa con i figli, ma anche poi di ritornare al proprio posto di lavoro. Insomma, come in Italia, che se figli fai la figura o di quello che si è fatto incastrare (se sei uomo) o di quella che vuol far la furba (se sei donna). Nei casi migliori.
In austria, soprattutto, c’è il mito della sovraoccupazione.

Per garantire un lavoro a tutti, ma senza farsene accorgere, un po’ ci si inventa cose da fare, per ammazzare il tempo, oppure si applica il ragionamento “nel più ci sta il meno”. Negli uffici pubblici dunque, popolati di impiegati felici e sorridenti, si fanno code brevi, generalmente. Il rapporto impiegati/utenti è infatti 3:1.
Oppure, come dicevo, si inventano cose da fare, e qui soprattutto è l’edilizia che va. Per esempio, si rade al suolo un intero quartiere e si ricostruisce, o si distrugge la stazione sud (Südbanhof) e la si ricostruisce, cambiandole anche il nome così ci scappa una bella commissione per sceglierlo magari (si chiamerà Hauptbanhof). O, nel piccolo di Laxenburg, si rifanno le aiuole della strada. Prima erano perfette, per lo standard cui sono abituato, dopo pare abbiano anche pettinato l’erba.

Pendolarismo

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Al confine fra l’Austria e la repubblica ceca, dove un tempo era stata stesa la cortina di ferro, sulla strada che collega Vienna e Praga, ora c’è un piccolo paradiso per disperati, un po’ da tutti i punti di vista.
È infatti tutto un fiorire di bordelli, case da gioco, casino, stesi a ridosso del confine, appena entrati in suolo ceco (non-slovacco, usando un termine più politically correct). Non mancano però le attrazioni anche per i più piccini, che possono così svagarsi mentre papà va a donnacce, mamma si obnubila davanti alle slot machine, e nonno si gioca la pensione al Chemin-de-fer (chissà se si scrive davvero così).
Tutto questo è rigorosamente per austriaci, che in poco tempo possono avere accesso a tutta una teoria di piaceri proibiti in patria.
Mi si stringe il cuore, per gli uni, che devono far le cose di nascosto, e per gli altri, che si svendono così.
La donnina della pompa di benzina, comunque, ha ampiamente ripagato la mia inutile compassione facendo una generosa cresta sul cambio.

Tamarren

Anche oltre le alpi, nel profondo est austriaco, è concessa l’epifania dei tamarri.

Devo confessare che, da buon borghese, non mi stupisce più di tanto vedere queste povere macchine ridotte in stati pietosi: oneste utilitarie gonfie, con alettoni che paion deltaplani, il cofano rosso e la carrozzeria nera con gli adesivi, i fari strani, la musica a tutto fuoco, e l’immancabile neon blu sotto la macchina, che gentilmente ti fa vedere l’asfalto sotto. Non mi stupisce più di tanto perché a bordo ci sono italiani e, sempre più, genti dell’est.

Quel che mi stupisce è la tamarritudine austriaca, che non conoscevo. In Austria infatti va tantissimo la personalizzazione della targa: quanto gli piace spendere la mamma per avere una targa particolare, e la cosa è interclasse, si vedono genti di tutte le estrazioni con queste targhe ridicole.

Non ho potuto ancora immortalare il fantastico “Wien 1”, in una Mazda decappottabile, con Mozart a tutto volume, i capelli à-la Montezemolo tinti al vento, camicia blu aperta, sigaro e sicumera da libero professionista di un certo livello, che a letto non si ritiene nemmeno tanto male.

Tuttavia mi pregio di mostrare il nostro Raul.

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Imbarazzo

È inevitabile, succede sempre, eppure non riesco ad abituarmici.
All’estero – e insomma ci sono stato abbastanza spesso negli ultimi dieci anni – prima o poi me lo chiedono sempre, con diverse intonazioni, con diverse intenzioni: “…ma…e Berlusconi?”.
C’è chi lo chiede col sorrisetto, come a dire “belle figure di merda, eh!”, chi con stupito interesse, chi vorrebbe capire, chi sfottere. Generalmente comunque prevale lo sconcerto accorato.
Non è facile spiegare, forse perché non ho io per primo chiaro cosa accada al nostro popolo.

Vagli a spiegare.

Un conto è spiegare Borghezio: esso è un fascista malato, matto, e riscuote successo in una parte risibile della popolazione. Osceno, ridicolo, grottesco, chiamatelo come volete, ma è in un certo qual modo considerabile fisiologico.

Berlusconi invece è stato votato dalla maggioranza degli italiani. Che o non sanno, o non vogliono sapere: un conto è avere un presidente del consiglio che non si vorrebbe avere, un conto è averne uno che viene considerato, all’estero, un completo buffone, e in modo purtroppo bipartisan, da destra e da sinistra. Perché certe cazzate all’estero non passano inosservate. Per ora solo una volta è andata meglio, con un gentilissimo indiano che mi ha detto che a loro non fa tanto effetto Berlusconi, perché da loro è sempre così. Gentilissimo, ma lo stesso – non so perché – mi veniva da piangere.

Generalmente adotto una strategia integrata, per uscirne velocemente:
1) in Italia c’è una grandissima crisi culturale (e quindi il discorso è troppo grosso per essere affrontato senza addormirsi);
2) siamo una democrazia acerba, tarpata dalla guerra fredda, stretta fra USA e URSS, dove il PCI non poteva di fatto vincere le elezioni, e quindi una democrazia zoppa (e dimmi che ho torto);
3) ma…e xxx? (e qui – se disponibile – inserisco il nome della loro vergogna nazionale, sorrido sornione come a dire “vogliamo andare avanti?” e con questo passo con disinvoltura mi getto sulla birra. Se non ce n’è, simulo un attacco convulsivo.)