back to Albania!

tirana

tirana

Finalmente sono di nuovo in Albania.
Il paese cresce a vista d’occhio: dopo 5 anni stento a riconoscerne molte cose. Dove c’erano cantieri ci sono case, dove c’erano buche, ora c’e’ asfalto, al posto dei vecchi palazzoni, colori sgargianti.

Sembra sempre di piu’ un cantiere, un formicaio in cui la gente lavora, costruisce, inventa, copia, ammassa, brulica.
E gli albanesi sono sempre gli stessi, con queste facce che sembrano incinse nel legno, dure come la pietra, che si aprono in un sorriso appena chiedi loro qualcosa.
Molte cose non ci sono piu’, di quelle che ho visto, come pure mi accorgo con rammarico di non aver nessuno qua, dei tre mesi e mezzo che ho passato, da ritrovare.
Resta un popolo intero, ed una intera nazione, da ritrovare.

Steve “Cemento” Zollo al porto di Bar

il porto di Bar

il porto di Bar

Un misto di pesce, nafta e sudore. L’odore dei porti. C’era cresciuto in mezzo fin da quando aveva potuto camminare sui docks, per scroccare qualche centesimo agli scaricatori e sentire i marinai raccontare le loro fantastiche balle. Odore di uomini truci e spacconi, pescherecci, molluschi avvinghiati ai piloni del ponte. Anche quando era andato a fottere la prima volta, la puttana più giovane che poteva permettersi. E c’era ancora quell’odore mentre zavorrava i piedi a quei cristi, sordo alle suppliche e alle promesse di tutte le ricchezze del mondo.

Scese dalla nave con la nausea. Non era mal di mare, era schifo per gli infiniti lavori di merda che aveva fatto nella vita. Per scoprire che quello che gli riusciva meglio era saldare i conti aperti da altri, in cambio di una buona paga, un completo pulito e una cravatta intonata. Era bastato il giro delle raffinerie siciliane a rivoltargli il rancore nella pancia: adesso gli toccava un porticciolo pidocchioso, frequentato dalla peggiore feccia che il buco del culo del mondo potesse cagare sulla terra. Un altro lavoro per Steve Cemento.

Solo una cosa lo manteneva lucido: la determinazione. L’ultimo carico ed era fatta. Toni il lionese lo aspettava a Cannes, per piazzare la sua droga.

Incamminandosi verso le tre sagome in fondo alla banchina, ripensà alle parole di Luciano: “Mi raccomando, Steve, tutto come le altre volte. E se provano a tirare sul prezzo, mandali a fare in culo insieme alle loro madri. And take care, okay?”

Le tre facce erano una collezione completa di quello che un’arma da taglio può produrre su un volto umano. Soltanto i baffi spioventi nascondevano in parte lo scempio. Indossavano giacconi puzzolenti e berretti da marinai di lana putrida. Emanavano quell’odore.

Si fermò davanti a loro e resse gli sguardi senza batter ciglio.

– Bulatovic.

Quello in mezzo fece cenno di seguirlo. Zollo si incamminò dietro di loro.

Lo scortarono dentro una bettola da cui provenivano musica e risate. Nel locale si stipava una trentina di uomini, all’angolo in fondo un vecchio strimpellava la fisarmonica. Alcuni avventori erano militari, barbe lunghe e divise slacciate per il caldo. Il fumo di sigarette e narghilé creava una nebbia fitta, oltre la quale Zollo intravide quello che doveva essere il suo uomo. Nei viaggi precedenti aveva avuto a che fare con intermediari, ma questa volta la partita di eroina era molto grossa: il capo in persona si era scomodato per riceverlo.

Mikhail Mehmet Bulatovic era seduto a uno dei tavolacci affumicati. Due energumeni stavano in piedi alle sue spalle. Al confronto, i tre tizi di prima erano carini.

Bulatovic portava un completo fuori moda di almeno vent’anni ed era mal rasato, come se la pelle coriacea avesse opposto strenua resistenza alla lama. Il genere di soggetto che Zollo detestava dal profondo. Un bifolco megalomane che si credeva lo Zar di tutte le Russie, solo perchè aveva in tasca qualche ufficiale e smerciava droga alla testa di una banda di tagliagole. Nessuna regola.

Erano personaggi del genere a muovere la ruota del narcotraffico mondiale. Decine, forse centinaia di piccoli cesari di provincia a caccia di soldi e gloria. Trattenne la voglia di sputare per terra.

Bulatovic fece cenno di sedersi di fronte a lui. Occhi da assassino, grigi e inespressivi. Zollo ne aveva visti parecchi. Strinse una mano ruvida e prese posto. Gli offrirono acquavite che sorseggiò appena.

Uno dei tizi del porto disse: – Mikhail no parla taliano, dice che é lingua di fascisti. Io sì, io fatto guerra contra taliani. Tu parli e io traduce.

– Voglio sapere dove prelevare la merce e consegnare il pagamento.

La traduzione fu rapida.

Bulatovic pronunciò poche parole.

– Dice dopodomani in Dubrovnik. Al porto. Tu controlli la merce, poi paghi.

Zollo annuì.

– Dice anche che tu molto pericolo qui. Mikhail ha molti nemici, gente che vuole mettere le mani su suoi affari. Capisce? Lui deve tenere tutti al loro posto. Spende denaro per pagare soldati, e per difendere la tua vita. Se lui no controlla tutto, suoi nemici ti ammazzano per rovinare suoi affari.

La solita merdosa storia. Il re pastore si era fatto avanti solo per tirare la corda. Zollo si alzò.

– Digli che il prezzo resta lo stesso delle altre volte. Alla mia pelle ci penso da solo. Okay?

Il tizio tradusse e Bulatovic rimase a fissarlo per alcuni secondi, come stesse valutando qualcosa.

Zollo si sentì una giubba blu che difende lo scalpo dagli indiani.

Girò sui tacchi, anche se l’idea di dare le spalle a quella gente lo entusiasmava poco. Prima di uscire sputò per terra.

Mentre camminava verso la nave si chiese quanto ci avrebbero messo a seguirlo. La porta della bettola sbattè dietro di lui.

Eccoli.

Si fermò e accese una sigaretta con tutta calma.

Erano i due guardaspalle.

Li osservò avvicinarsi, fumando.

Impugnavano delle Luger del ’45. Ferraglia buona per la limatura.

Le prove di forza non gli piacevano. Erano soltanto gesti retorici per dimostrare chi aveva il cazzo più duro. Ma quella gente era così, parlava una lingua antica.

Estrasse la Smith & Wesson silenziata e centrò entrambi alla rotula sinistra, prima che avessero il tempo di prendere la mira.

Il resto lo fece a calci e col serramanico che portava in tasca.

Quando rientrò nella bettola aveva la giacca sgualcita e una macchia di sangue sulla manica. Bulatovic e l’interprete rimasero pietrificati al tavolo, dello stesso colore, quasi facessero parte di un’unica scultura in legno.

Zollo si avvicinò, la stessa espressione di quando era uscito.

Il trafficante udì un pluf dentro il bicchiere che aveva davanti.

Mentre l’acquavite si tingeva di rosso intravide due orecchie galleggiare.

Zollo mormorò: – Adesso sai chi é il peggiore tra noi due.

Si rivolse all’interprete: – Ci vediamo a Dubrovnik.

Questa volta uscì guardandosi le spalle.
Wu Ming – 54

QUESTA é letteratura.
E io mi sono fumato, in memoria del buon Steve, una sigaretta sul quel molo!

le frontiere

frontiera slovena

frontiera slovena

Nella foto é possibile notare la frontiera italo-slovena, per altro ormai desueta, visto il recente ingresso degli sloveni in UE. Tuttavia, per decenni e decenni, nel panorama che si può vedere da sopra Trieste era come se ci fosse un taglio, netto e profondo per alcuni, lacerante per altri, inquietante e carico di misteriose minacce per altri ancora, piccolo intoppo per pochi. Per quanto mi sia sforzato, confini non ne riesco a vedere. Eppure, sull’atlante, per me questo territorio é sempre apparso sul bordo, come un bicchiere che sta per cadere giù da un tavolo, come se gli abitanti fossero funamboli sospesi sul vuoto del mondo oltrecortina. E la stessa sensazione mi ha preso mentre Paola mi guidava da Muggia attraverso uno dei lembi più remoti del nostro stato. Ma la frontiera per me é solo un patimento. Immagino questi poveri popoli di confine, magari separati all’improvviso dai parenti o dagli amici (talvolta addirittura divenuti in un attimo i Nemici), che non parlerebbero probabilmente né italiano né sloveno, ma un loro dialetto meticcio; e invece, da una parte del filo rosso dovevano essere e parlare italiano, dall’altro lo sloveno. Certo, col passare del tempo gli stati nazionali hanno imparato a riconoscere l’importanza delle cosiddette minoranze linguistiche, ma non basta. è lo stato nazionale di per sé che, secondo me, é una cacata inutile.

dal lato sbagliato della barricata

Le barricate

Le barricate

Ho sempre pensato,credo a ragione, che una persona di sinistra dovesse mirare ad ideali globali di giustizia, eguaglianza e solidarietà .
Poi rifletto sul fatto che il 20% della popolazione della Terra beneficia dell’80% delle risorse della stessa, ad ovvio discapito della restante parte, cui spettano gli avanzi.
Poi penso al fenomeno del riscaldamento globale: che sia vero o meno, ha avuto il buon risultato di porre forzosamente sotto gli occhi di quei 20 su 100 che é il caso che riducano drasticamente le loro emissioni di gas serra (leggi: consumi in generale) se vogliono che i loro figli abbiano uno straccio di futuro. La naturale conseguenza, per i 20 su 100 (che socializzano le rotture di coglioni e individualizzano i piaceri), é di coinvolgere gli 80 normalmente lasciati alla porta, al grido di “noi stiamo valutando l’idea di ridurre i nostri consumi, voi vi dovete sognare lo stile di vita che noi ci siamo goduti per un centinaio d’anni, perché é insostenibile. Peccato”.
Poi penso alla crisi nera della sinistra, all’imbarazzo del PD che non ha uno straccio di idea che sia una. E mi dico: ma le donne e gli uomini di sinistra, che aspirano ad un mondo migliore, non solo ad un’Italietta migliore, dove i popoli possono vivere senza guerre, la gente condurre una vita dignitosa e felice, lo sanno che fisicamente la terra non può garantire il nostro stile di vita a tutti? E sono disposti allora a dare agli altri metà  del loro mantello, come il Santo?

Credo che sappiano la prima, e abbiano il terrore della seconda (d’altra parte chi non ha mai fatto il finocchio col culo degli altri?), e chissà , forse é per questo che la sinistra é messa così male: é semplicemente perché gli oppressori siamo noi, noi il nostro nemico ideale di sempre; siamo noi ad essere dal lato sbagliato della barricata.

Mac OS X – come cambiare lo sfondo del login

login mac

login mac

Per cambiare l’immagine di sfondo del login in Mac OS X (che in Leopard é quell’obbrobrio tipo nebulosa nello spazio profondo) é semplicemente necessario modificare la stringa contenuta nel file com.apple.loginwindow.
Per farlo ci sono svariati sistemi, ne elenco due, uno “grafico” ed uno “testuale”.

Grafico
Aprite una finestra di Finder, poi digitate

tasto mela + shift + G (vai a…)

e scrivete

/Library/Preferences/

aprite il file

com.apple.loginwindow

(dovrebbe aprirlo con Property List Editor, nel caso in cui abbiate installato gli Apple Developer Tools, altrimenti dovete procurarvi un altro editor equipollente, tipo questo)

Espandete il Dictionary “root” (cliccando sul triangolino nero) e modificate il valore (che é una stringa con un percorso) della voce “DesktopPicture” con il percorso della nuova immagine (io, per esempio, uso un png con un colore):

“/Library/Desktop Pictures/Solid Colors/Solid Aqua Blue.png”

salvate e chiudete.

Riavviate.

Fatto.

Testuale
Un sistema più semplice é quello di copiare direttamente l’immagine laddove il sistema andrà  a cercarla. Quindi:
aprire Terminal
$ cd /System/Library/CoreServices
$ sudo mv DefaultDesktop.jpg DefaultDesktop.jpg.old
$ sudo cp /Percorso/immagine/che/si/vuole/usare/immagine.jpg& nbsp;DefaultDesktop.jpg

Se cercate sfondi per il vostro desktop (tipo Mac o altro) cliccate qui

If you are looking for desktop wallpapers (Mac style or whatever), please clicke here

lottare

zeman

zeman

Smettendo di fumare mi sono accorto di un particolare che mi era sfuggito.
Mi immaginavo, beata ingenuità , che la voglia di fumare tendesse a zero con il tempo, ovvero cessasse. Ragion per cui l’idea di smettere di fumare non é che mi apparisse infattibile, certo, senza parlare della terribile malinconia che ti prende al pensiero che mai più metterai una adorabile ms in bocca; per questo però il mio amico P. mi ha involontariamente suggerito una strategia per me efficace, e cioé che non ho smesso di fumare -é praticamente come perdere una persona cara, per quanto possa apparire grossolana ed enfatica la cosa- bensì mi sono preso una pausa e, rovesciando quindi completamente la prospettiva, “io posso ricominciare quando voglio”.
Il problema é che a me la voglia di fumare non é mai andata via.

Certo, niente a che vedere con i picchi di acuto desiderio che ti assalgono quando smetti e per i primi mesi, però non posso negare di essere assalito relativamente spesso, ovvero quotidianamente, dalla voglia di fumare.
O comunque settimanalmente.
E dunque smettere di fumare é diventata una piccola lotta quotidiana, una scelta che ogni giorno non solo deve essere rinnovata, ma applicata.
E da qui una piccola estensione.
I problemi che ci si portano dentro, o meglio, via, i problemi che mi porto dentro -giusto per evitare toni assoluti- sono più o meno stabili, intendo il nocciolo, lo zoccolo duro. Poi certo ci sono tutta una serie di problemi contingenti, legati al momento esistenziale, alla congiuntura degli eventi e roba del genere. Ora non mi occupo di quelli
Le volte che mi sono messo a guardare ai miei problemi nel loro insieme, la sensazione é stata molto semplice e ben definita, e la si può riassumere agevolmente nella frase “No, non ce la posso fare”.
Ed é vero. Nel senso, i problemi -almeno per quello che fino ad ora mi é parso di capire dalla mia esistenza- non si risolvono, cioé non é possibile buttarli nel cestino e poi premere “svuota cestino”. Cioé, non solo non si può fare per tutti i problemi presi insieme -che già  di per sé é operazione terrificante!-, ma nemmeno singolarmente. L’operazione infatti é, se non quotidiana, comunque da reiterare, in quanto non esiste una soluzione valida per tutte le varianti ed evoluzioni del problema, e soprattutto non é sempre possibile cambiare noi stessi così in profondità  da operare permanentemente la risoluzione del problema che -almeno a mio modo di vedere- é profondamete legato alla nostra natura più profonda.
Ed infatti, tutte le volte che i piccoli problemi non li ho affrontati, nelle piccole minchiate quotidiane della vita, alla fine sono tornati in massa a bussare alla mia porta, spesso senza aspettare risposta. Le conseguenze sono spesso piuttosto antipatiche, tipo amicizie che subiscono pesanti battute d’arresto, carriere universitarie congelate, storie(a) d’amore a rischio e via così.
E così ho visto anche per le persone care che mi sono o mi sono state accanto.
Se ne parlava con mio padre, marginalmente, qualche giorno fa, a proposito della vita di coppia (e ne avevo parlato con l’altro P. tempo addietro): fin da piccoli siamo stati sommersi da modelli televisivi e cinematografici che propongono una vita di coppia addiacciante. Coppie mai in crisi, o per lo meno che si trovano di fronte cazzatuccie che si risolvono entro la prima metà  del secondo tempo; amori che si estrinsecano nell’innamoramento totale e perpetuo.
Mai una menzione a quando ti svegli con il giramento di coglioni e vorresti essere su un’isola deserta.
Mai un accenno al fatto che tutti i giorni la nostra individualità  chiede spazi, tempi e risorse che sente sottratti dalla coppia, e che si devono dare risposte a queste istanze.
E uno, quando poi ci si trova davanti, crede di non essere sufficientemente innamorato, di non essere all’altezza. E la gente si manda a cacare, e le storie d’amore finiscono, che é poi l’unica cosa veramente brutta delle storie d’amore.

Ecco, ora mi fumerei una bella sigaretta.

Fate cacare

fuoco e fiamme

fuoco e fiamme

Colpa dei 4 operai morti, se ti s’é bruciato l’impianto, se ti hanno denunciato, se il tuo nome é stato infangato, se le azioni della tua merdosissima azienda sono scese.

Colpa del pressappochismo con cui lavoravano, trascurati e sciatti.
E dunque, é giusto che paghino, nella terra dove tutti pagano per le loro colpe, e si chiedono 35 milioni di danni alle famiglie.

Fate cacare, amministratori delegati, che firmate dietro lo scudo del “sono pagato per applicare le decisioni, ma non le prendo io”; fate cacare, stormi di avvocati grigi, che sviluppate strategie perverse e aberranti dietro il paravento del “io lavoro per una parte, fa parte del gioco, non implica che stia da questa parte”; fate cacare, consigli di amministrazione, che vi trincerate dietro la massa amorfa degli azionisti.

Fate cacare più dei nazisti: loro possono sempre dire che non sapevano, voi non potete non sapere.

cosa abbiamo fatto di male…

fontane

fontane

…..per meritarci Domenici?

O il Cioni.

Vado a Vienna e, oltre alle solite, mille fontane che zampillano acqua fresca di ottimo sapore, mi trovo con questi catrozzoli di acciaio, di forse dubbio gusto, ma perfettamente efficienti: alla semplice pressione di un pulsante erogano acqua in due modi. Il primo, tradizionale, é il classico zampillo; il secondo é un bel getto di acqua fresca vaporizzata dall’alto, per rinfrescarsi un po’ senza mezzarsi tutti.

Questo -a me- dà  la misura dell’accoglienza di una città , o per lo meno me ne dà  un’idea.

Esattamente come a Firenze, con poche fontane secche, e tanti bar felicissimi di darti bicchieri a gratis.

però, c’é da dire, i nostri tg sono prodighi di consigli, tipo quando dissero ai vecchini di andare a rinfrescarsi ai centri commerciali.

Ora basta

esilioAdesso basta immigrati che ci vengono a rubare il lavoro. Avete presente i negri che vendono la loro paccottiglia davanti ai nostri prestigiosi monumenti storici? Vi ha mai infastidito una cinese che cercava di rifilarvi una cavalletta di foglie di bambù intrecciate? Beh, é tempo che la finiscano di venire a rubare il lavoro agli italiani.

Il tipo che vedete in foto é un italiano DOC, e -pensate- é costretto a vendere la sua merce di fronte allo Stephansdom di Vienna (a destra, fuori campo).

Potrebbe esercitare il suo talento qui da noi (“donne, terroristi, buoi e venditori dei paesi tuoi”), magari di fronte al nostro, di Duomo, e invece per colpa di una manica di straccioni e di una classe politica inetta é costretto ad emigrare.

Dove, dico dove andremo a finire?