Dopo circa 11 ore di volo, siamo arrivati in Giappone.
Siamo passati sopra posti che ho sempre sognato vedere, su alcuni nei quali spero di andare, su altri che so non vedro’ mai.
Siamo passati sopra l’Europa centro-orientale, poi le verdi e piatte repubbliche baltiche, coi loro fiumi placidi, sulla carelia, e poi, dopo il buio, sulla sconfinata Siberia. Ho visto un fiume come una lingua d’argento, pieno di isole e banchi di sabbia da sembrare una rete luminescente, circondato dal niente. Ho visto montagne semicoperte di neve, completamente brulle e deserte, solitarie in modo totale, a nord del lago Bajkal, che non sono riuscito a vedere per poche decine di chilometri. E poi ancora pianure e praterie sconfinate e deserte, citta’ isolate dal resto del mondo, nelle quali mi chiedo cosa la gente faccia, per non sentire quell’incredibile silenzio a perdita d’occhio che la circonda; e infine la costa, con alte scogliere, dove la Russia si affaccia sull’altro oceano, dall’altra parte del mondo. Mi ero sempre chiesto come fosse.
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prima partenza (falsa partenza)
“Allegro Tosca” Wien SBHF – Firenze SMN
Stazione, treno, saluti al binario, cosa dico cosa non dico, che buon odore le fa la pelle, minchia parte, ciao ciao.
Dove cazzo é lo scompartimento, carina la controllora, salve, salve, due minchiate col tizio sconosciuto con cui sarò in intimità coatta per le prossime ore, silenzio.
Non reale, ovviamente, che il treno non é posto silenzioso, per niente. Quel silenzio interiore che mi invade sempre quando parto, specialmente se so che mi sto allontanando per un pezzo da Paola. L’ho lasciata decine di volte su una banchina, da quando manca poco correva dietro al treno, ai giorni nostri, in cui ci si saluta e basta; sono stato lasciato decine di volte su una banchina, da quando frignavo tornandomene in macchina, ai giorni nostri, in cui c’é una sorta di magone, un gomitolo di malinconia nelle budella.
D’altra parte é parte di un mai esplicitato accordo, scrupolosamente rispettato da entrambi, che prevede la libertà di circolazione. L’importante é tornare, però se si deve andare si va, un pianto e un lamento, una lamentela e un po’ d’invidia, e basta.
Questa volta non ci allontaniamo per molto tempo, solo venti giorni, eppure la congiuntura degli eventi é particolare. Anzitutto, vado, dopo secoli, in vacanza in un paese straniero che non ho mai visitato con altre persone e non con lei. Era capitato con l’Albania, ma non ero in vancanza né ero con colleghi, ero con uno dei miei migliori amici. E soprattutto non ero così lontano, ovvero non ero dall’altra parte del mondo, in Giappone, probabilmente il posto più lontano in cui mai sarò stato, certo se si esclude Vermosh, che era sì in linea d’aria a 60 km dal mar adriatico, ma nella sostanza uno dei posti più remoti della terra, almeno a mio modo di vedere.
La verità é che mi scoccia andarci senza la mia metà migliore, parafrasando non si chi.
La gola della sabbia che canta
Immaginate di prendere un pulmino scassato, pieno di cinesi che guardano uno dei loro film preferiti -un film di cappa e spada con spade che paiono neon, botte da orbi, duelli che durano ore e recitazione iper-minimalista- in un divx mandato su un televisore vecchio di vent’anni inchiodato al soffito del mezzo;
Immaginate di far un viaggio di un paio d’ore con il vicino davanti che passa il tempo girato contro al senso di marcia, appoggiato allo schienale, per guardarvi con maggiore comodità .
Lasciati i camini di un un’enorme centrale nucleare vi immergete in campi verdissimi, pieni di grano.
Lentamente la vegetazione si fa più giallastra, più stentata. Cambiate pulmino in un villaggetto nel quale -forse- non hanno mai visto occidentali, con contadini bruciati dal sole che toccano i capelli biondi come fossero d’oro.
La vegetazione é brulla e spoglia, ma regge.
Poi, d’improvviso, una valle dalle pareti di sabbia e fango, con in fondo un fiume limaccioso, e, oltre, come fosse stato svuotato un secchio di sabbia, irreale, fuori posto, un deserto.
Non rocce o fango secco con le crepe: sabbia, dune ondulate, a perdita d’occhio,ma in una sola direzione. Quella é la gola della sabbia che canta (letteralmente “che gioca”}, Xia Sha Wan, 响沙湾. Superato il fiume melmoso con una seggiovia residuato di Cortina, si arriva ad un enorme parco giochi per cinesi. Ci sono le minijeep che permettono, con roboanti fumate nere, di fare un giro su un circuito nella sabbia, con accanto uno spallatissimo addetto che in alcuni casi tiene pure il volante. Ci sono i cammelli, in condizioni disastrose -veramente, da piangere-, che simulano una finta carovana per un paio di chilometri e ritorno. Ci sono un paio di vecchi camion militari scoperchiati, ricoperti con una carrozzeria di compensato a forma di un qualcosa fra la vespa e la balena che portano, lascio a voi immaginare cosa non si lasciano dietro, miriadi di cinesi in un veloce giretto dietro alle prima dune. E poi cose più classiche: il tirapugni, montato però sotto una tenda, il bar ecc… Tutto questo é preso d’assalto da orde di cinesi semplicemente estatici. Salutano tutti felicissimi, emettono grida, stridii, rutti e innumerevoli altre forme di gioia e sorridono. Non é dato sapere quanto tempo é che aspettano queste ferie. Il tutto é fra il grottesco e l’esilarante.
Se uno, comunque, si avventura un po’ verso il nulla, non ci vuol molto per ritrovarsi – per la prima volta da quando si é arrivati nel Regno di Mezzo – completamente soli in un posto completamente irreale.
E questo é ciò che c’era.
Se volete saperne di più sulla gola la potete contestualizzare qui
and the radioman says…
é il videoclip della canzone Screenwriter’s Blues dei Soul Coughin, un gruppo statunitense di Chicago.
Trovo questa canzone, un unico giro ripetuto all’infinito, evocativa come poche – la ascolto spesso, in questo periodo, mi fa pensare a splendidi viaggi, di notte, in macchina. Come quello che la prossima primavera spero di fare a Roma. Una notte in giro, in macchina, per la capitale. Una notturna.
E questo é il testo della canzone.
Exits to freeways
wisted like knots on
the fingers
jewels cleaving
skin between
breasts.
Your Cadillac breathes
four hundred horses
over blue lines
you are going
to Reseda
to make love
to a model
from Ohio
whose real name
you don’t
know
you spin
like the cadillac was
overturning down a
cliff on television
and the radio is on
and the radioman is speaking
and the radioman says
women were a curse
so men built Paramount
studios
and men built Columbia
studios
and men built
Los Angeles
it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles
And the radioman says
it is a beautiful night out there!
And the radioman says
Rock and Roll lives!
And the radioman says
it is a beautiful night out there
in Los Angeles
you live
in Los Angeles
and you are going to
Reseda; we are all
in some way or
another going to
Reseda someday
to die
and the radioman
laughs because
the radioman fucks
a model too
Gone savage
for teenagers with
automatic weapons and
boundless love
gone savage for
teenagers who are
aesthetically pleasing
in other words
fly
Los Angeles beckons
the teenagers
to come to her
on buses;
Los Angeles loves
love
it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles
I am going to
Los Angeles
to built a screenplay about
lovers who
murder each
other
I am going to
Los Angeles
to see my own
name on a
screen, five feet
long and luminous
as the radioman says
it is 5 am
and the sun has charred
the other side of
the world and come
back to us
and painted the smoke
over our heads
an imperial violet
it is 5 am
and you are listening
to Los Angeles.
You are listening.
You are listening.
You are listening.
You are listening.
il traghetto nella sabbia
Ricordo una volta, eravamo con Paola, verso Pasqua. Una di quelle “fuitine” che solo da universitario ti puoi permettere davvero. Eravamo andati in Belgio e Olanda, dopo un anno burrascoso di grandi dolori e grandi soddisfazioni, per dirla alla francese. Avevamo noleggiato una twingo verdastra da un simpatico e piuttosto vecchiotto belga di Brussel (che in seguito ci aveva premurosamente girato una multa minacciosa -per i toni- da autovelox della polizia olandese). Dormivamo in un grazioso e deserto ostello in Belgio, al confine con l’Olanda, su un canale fiancheggiato da una fila infinita di mulini a vento, quelle imponenti costruzioni donchisciottesche che placidamente girano le pale. A me piacciono moltissimo. Era uno di quei posti in cui terra e acqua non sono ben definite: coste frastagliate, foci, fiordi, paludi. Non si capisce bene cosa sia cosa. Una delle notti che dormivano là , ci siamo spinti ardimentosamente in Olanda (ce ne siamo accorti per via dei cartelli). Al ritorno, era tardi e decidemmo di traversare un braccio di mare, che non ricordo se fosse un fiordo o la foce di un fiume, con un traghetto. O meglio, una chiatta. Il ricordo é completamente occupato dalla scena che vidi dal ponte di quel traghetto, mentre mi fumavo una benedetta sigaretta, Paola rassegava in macchina per via di qualche linea di febbre e il vento mi gelava la pelle del viso.
La nave, per via di una stranissima luce notturna diffusa dalle nubi (dietro cui immaginai campeggiasse una luna ben pasciuta), sembrava navigare su un deserto di sabbia scintillante. Quasi non si sentiva lo sciabordio dell’acqua, la superficie appena increspata da piccole onde tutte uguali, come la sabbia nel deserto, il fragore del vento come annichilito da tanto spettacolo. La sigaretta, forse anche per via delle folate, mi si spense fra le dita quasi senza combattere.
G
gli albanesi e gli italiani – il taxi collettivo
nel 2003, quando ero in Albania con il mio amico G., ci é capitato che il tassista, che in realtà pilotava uno scassato furgoncino tipo Vanette (mitico) che fungeva da mini-corriera/taxi collettivo, scoprendo che eravamo italiani, inchiodasse, mollasse “taxi” e passeggeri dove capitava e ci portasse a prendere un caffé. Il rito si svolgeva così: ci venivano offerte n sigarette, generalmente fini (quelle che da noi fumano generalmente le signore di una certa età con un generico animale morto sul collo e che in Albania -perlomeno allor- fumavano certi energumeni con le dita così tozze che la sigaretta appena spuntava fra di esse); il rifiuto non era generalmente capito, o comunque giudicato assolutamente irrilevante. Il caffé era in realtà un escamotage per evitare il raki, la grappa locale, consumata a qualsiasi ora. La conversazione passava dai parenti in Italia, ai risultati delle partite (sulle quali gli albanesi erano inevitabilmente più aggiornati di noi, non tifosi), a “Italia bella, Italia cultura, Italia progreso” (un mantra spesso ripetuto dinnanzi alla nostra completa incredulità – nel caso ve ne foste scordati, c’era Berlusconi, all’epoca, e pure la Bossi-Fini, che per altro gli albanesi conoscevano comma dopo comma, sicuramente meglio dei firmatari…). Il caffé lo offriva il tassista, come pure la corsa. I passeggeri, generalmente, non si erano mossi dai sedili; i più arditi, erano scesi a fumarsi una o più sigarette. Quando scendevamo, ci salutavano tutti calorosamente. Più o meno come facciamo noi con loro.
G