nel 2003, quando ero in Albania con il mio amico G., ci é capitato che il tassista, che in realtà pilotava uno scassato furgoncino tipo Vanette (mitico) che fungeva da mini-corriera/taxi collettivo, scoprendo che eravamo italiani, inchiodasse, mollasse “taxi” e passeggeri dove capitava e ci portasse a prendere un caffé. Il rito si svolgeva così: ci venivano offerte n sigarette, generalmente fini (quelle che da noi fumano generalmente le signore di una certa età con un generico animale morto sul collo e che in Albania -perlomeno allor- fumavano certi energumeni con le dita così tozze che la sigaretta appena spuntava fra di esse); il rifiuto non era generalmente capito, o comunque giudicato assolutamente irrilevante. Il caffé era in realtà un escamotage per evitare il raki, la grappa locale, consumata a qualsiasi ora. La conversazione passava dai parenti in Italia, ai risultati delle partite (sulle quali gli albanesi erano inevitabilmente più aggiornati di noi, non tifosi), a “Italia bella, Italia cultura, Italia progreso” (un mantra spesso ripetuto dinnanzi alla nostra completa incredulità – nel caso ve ne foste scordati, c’era Berlusconi, all’epoca, e pure la Bossi-Fini, che per altro gli albanesi conoscevano comma dopo comma, sicuramente meglio dei firmatari…). Il caffé lo offriva il tassista, come pure la corsa. I passeggeri, generalmente, non si erano mossi dai sedili; i più arditi, erano scesi a fumarsi una o più sigarette. Quando scendevamo, ci salutavano tutti calorosamente. Più o meno come facciamo noi con loro.
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