Tornando a Firenze per uno striminzito fine settimana, mi trovo a ragionare – superficialmente come mio solito – sulla relatività del concetto di “casa”.
Lascio Vienna, nella quale mi sto trovando tutto sommato bene, ma che ancora è ben lungi – e temo lo resterà – dall’esser considerata “casa”, per tornare a Firenze, che invece “casa” è.
Eppure, ben poche volte mi ha seccato così tanto partire.
Ho sempre amato partire, il frizzante sapore della partenza, l’ignoto che sta in ogni viaggio. Il treno di notte poi è per me un luogo magico. Il puzzo del treno, della ferrovia, metallico, il to’to’ttoto’ dei binari, l’essere un po’ sbatacchiati e cullati assieme.
L’intimità coatta, gente che non hai mai visto che scoreggia, si sveglia disfatta. Gli incontri improbabili, la solidarietà di chi non dorme e popola i corridoi. Le pecore nere, quelli che russano, puzzano, piangono. Quelli che hanno un sacco di bagagli.
Le città che passano, le luci, i passaggi a livello.
La bestia nera d’ogni viaggio in treno, la scolaresca, peggio se americana – che bevono.
I controllori, che vegliano tutta la notte, e alla fine fanno da genitori a tutti i passeggeri.
Il treno di notte è una meraviglia.
Ma lo stesso mi girano i coglioni, ho un po’ di magone, di malinconia.
Sarà che lascio Peppotto e la Molino, e dove loro sono, ormai, casa mia sta.
Puro Sciascia da emigrante, mi sono commossa. Chapeau. 🙂
Diobono! Grazie Marghe!