Botte e pannolini (omaggio alle ostetriche)

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Poco più di tre anni e mezzo fa nasceva Peppe. Allora, dopo i primi giorni passati nella maternità di Careggi – in pieno clima di caccia al fannullone post-deliri di Brunetta, decisi che avrei dovuto, prima o poi, omaggiare le ostetriche, cui mi sentivo di dover molto, anche per render giustizia almeno ad una piccola parte profondamente lesa del mondo del lavoro. In questi giorni, dopo la nascita di Anita quassù in Austria, credo sia giunto il momento di rendere omaggio.

Le ostetriche, ne ebbi sentore nel maggio del nove, e ne ho avuta una specie di conferma nel dodici qui in Austria, appartengono ad una setta, una confraternita, una sorellanza che affonda le proprie radici in un tempo ancestrale. Temevo non poco di trovarmi in sala parto senza capire una minchia, visto che il mio tedesco ancora non eguaglia nemmeno quello delle sturmtruppen. Ma la lingua delle ostetriche è una sola, fatta di riti, gesti, sussurri, comandi, carezze, botte. E sono tutti così antichi che non c’è bisogno di capirli: si sanno.

Ogni volta che vedo un’ostetrica con in mano un neonato, penso a quando raccontavo ai miei lupetti di Mamma Lupa, il personaggio del Libro della Giungla che cresce Mowgli: pur avendo mandibole in grado di spezzare un osso di bue, con le stesse zanne è in grado di spostare i propri cuccioli senza il più piccolo graffio. Oppure alla cagna che avevamo quando ero piccolo, che grande e grossa era in grado di saltare in mezzo ai suoi undici cuccioli senza mai calpestarne uno. E se il paragone può sembrar quasi offensivo, per me è il più preciso, e racchiude tutto il mio stupore e ammirazione. Le ostetriche trattano i bambini con modi decisi, quasi bruschi, senza tentennamenti, come le movenze di chi ripete gli stessi gesti da millenni. Eppure con una dolcezza infinita. E lo stesso vale per tutto quel che fanno.

Ho sentito porre, dalle mie e dalle labbra di altri babbi, le domande più evidentemente idiote che siano mai state pronunciate sulla faccia della terra, domande che alla fine sono semplici richieste di rassicurazione: mai ho sentito rispondere in modo brusco, annoiato, stizzito, mai toni di sufficienza. Le ostetriche sanno anche guardare con tenerezza a quella strana protesi che è il babbo. Diciamocelo chiaramente: siamo probabilmente più inutili delle zanzare, in sala parto. Se va bene, i padri svengono: in questo modo vengono sgomberati dalle palle e fino alla fine delle danze nessuno se ne deve più preoccupare. Certo, facciamo folklore: come non sorridere di fronte ai cori da stadio improvvisati assieme agli altri babbi quando torna una puerpera dalla sala parto, agli abbracci e alle pacche come si fossero fatte insieme le medie, alla finta indifferenza con cui tendiamo le orecchie fino allo spasmo per carpire la risposta ad una domanda che – grazie al cielo – un altro babbo è riuscito a formulare, togliendoci un paio di dubbi atavici, e risparmiandoci al contempo l’ennesima figura da imbecille di fronte all’ostetrica di turno. Le ostetriche non solo riescono a tollerare questo indegno spettacolo, ma ci trattano con affetto, cercando anche di coinvolgerci, tipo quando ti fanno tagliare il cordone ombelicale (ecco, la prossima volta eviterei volentieri, ché si vanifica in un attimo tutta una lotta contro lo svenimento, sorvolando sulla somiglianza col pulire i calamari).

Credo che molto abbia a che fare, oltre che col fatto di praticare un mestiere antico come il mondo, con la dinamica del parto stesso. Di fatto, un’ostetrica è una donna che costringe una sua consimile non solo a non fuggire da quel dolore totale, immenso e accecante, ma addirittura a gettarvicisi in mezzo, perché sa che l’unica via d’uscita passa proprio da lì. E questo le permette, probabilmente, da una parte di lasciar perdere tanti fronzoli, dall’altra di mantenere un livello di compassione elevatissimo, senza il quale io credo un’ostetrica non potrebbe fare il proprio mestiere. La sensazione è infatti che ci sia una forma antichissima di amore fra la partoriente e l’ostetrica.

Il parto è un momento totalizzante, anche per noi papà. Sembra che il fluire del tempo, della storia, del mondo stesso, rallenti fino quasi a fermarsi, in un tempo presente assoluto, e nello stesso tempo si restringa fino a quello stretto canale, che la creatura percorre con lentezza, millimetro a millimetro, fitta dopo fitta. La descrizione più bella e fedele di cosa sia il parto per un uomo l’ho sentita da un collega di colleghi, un romano, una volta a pranzo, pochi giorni prima che nascesse Peppe. Non l’avevo mai visto, ed era l’unico degli astanti che avesse assistito ad un parto: gli chiesi come fosse, visto che ci sarei andato. “Mah…devi capì che…cioè…è ‘na cosa bbella…però vedi tu’ mojie in una condizione che….cioè…teribbile…però è pure bbello, cioè…sangue dappertutto…però emozionante eh…anche se la vedi soffrì e nun puoi fa’ gnente…insomma: nun se po’ spiegà, però vacce!”

Infine, mi ha sempre affascinato moltissimo il tormentato rapporto fra medici ed ostetriche. Da una parte c’è la scienza, la forza di chi porta quel verbo che ha salvato milioni di vite, sconfitto malattie, riaggiustato ciò che il padreterno ha tralasciato. Dall’altra una signora che, guardandoti col sopracciglio incurvato, sembra dirti che se ne frega tre cazzi della tua scienza, che lei sono millenni che fa nascere creature, e che fino a prova contraria come si fa a far partorire una donna lo sa lei. Entrambe le forze hanno ragione, una forse è più affascinante, antica e fisica, l’altra più intellettuale, razionale, algida. Però, entrambe giocano e sanno giocare. C’è un limite fra le due discipline, ma da entrambi i lati della linea sottile vige una regola ferrea: poche palle. Quando comanda l’ostetrica, ovvero finché il parto è naturale, comanda l’ostetrica. Mentre Peppe cercava la sua via d’uscita, l’ostetrica chiese alla ginecologa di sostituirla per dieci minuti. Nel chiederlo, mimò con ostentazione il gesto di chi fuma. Tornò che puzzava di fumo come un pub, ma anche con rinnovata energia: cominciò a gestire (sì, gestire: normalmente detesto questo verbo applicato alle persone, ma in questo caso è l’unico appropriato!) le ginecologhe e le altre ostetriche presenti come fossero strumenti. E le altre, fossero laureate o specializzate, più anziane o meno, tutte eseguivano come precisi automi, obbedienti.

Con il parto, riprendendo quanto mi disse un mio zio, comincia quel lungo e sotterraneo percorso attraverso il quale un uomo diventa un padre. È, a differenza di quello delle madri, un percorso infinito, dall’esito incerto e dai contorni sfumati, ma non meno profondo. Il primo passo per diventare uomini ce lo mostrano proprio queste donne, forse l’archetipo della femminilità stessa, con i loro gesti, il loro affetto, e ogni tanto, con le loro botte sardoniche.

Con gratitudine

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